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Dodicietrenta
Raffaele Gavarro

Chissà cosa vuole dire uno che oggi, ad appena un lustro dalla fine del secondo millennio, si mette a dipingere forchette e cucchiai? Bella domanda – dirai subito di rimando, mio caro lettore – ma sta a te rispondere, e non provare ad imbrogliare.
Imbrogliare? Tranquillo, sarebbe troppo complicato. Però tu prova ad immaginarlo, un tizio che dentro un’enorme autorimessa, sotto un moderno palazzo di una città del sud, sta lì che dipinge forchette e cucchiai, forse coltelli. Converrai con me che la questione si presenta complicata. Potrei lavorare di metafora, o andare per paradossi, ma ho paura che la mia fatica sarebbe ben presto cancellata dal tuo, già lo vedo, imminente sbadiglio. Cerca di avere pazienza, perché prima di andare al sodo, ho bisogno di raccontarti due o tre cose sulle quali riflettere, può essere d’aiuto per capire il sentimento di questi tempi, e sulle quali l’arte rimugina e lavora stando ai margini o forse al centro, questo dipende dai punti di vista e da quello che ovviamente la storia avrà la bontà di trascinarsi dietro fin dentro il futuro. Ma al momento ci interessa il presente e al limite il destino che attraverso di esso ci prefiguriamo, quindi diciamo subito che la situazione è quanto mai contraddittoria sia fuori che dentro l’arte, nonché tra quest’ultima e il resto. Da una parte la pratica e la fascinazione di una tecnologia che alleggerisce e velocizza alcuni dei modi con cui ci rapportiamo con il mondo, dall’altra la persistenza di una fisicità del quotidiano con cui continuiamo a fare i conti, e nonostante tutto spesso con gran piacere. Forse non siamo costretti proprio a sdoppiarci, ma è certo che siamo violentemente tirati verso due direzioni opposte. Nell’arte avviene un po’ la stessa cosa. La pittura, la scultura, l’installazione, la fotografia, il video, insomma la tradizione e per contro la totale virtualizzazione dell’elettronica e della telematica, le nuove possibilità espressive e soprattutto di trasmissione. Se è vero, com’è vero, che dalla pop in poi l’arte ha tenuto d’occhio alcuni aspetti della cosiddetta cultura bassa, spingendo molto sull’acceleratore della divulgazione, va da sé che quest’aspetto della rapidità della trasmissione verso cui tutto il sapere sta operando una ineluttabile conversione, non sarà a lungo un aspetto secondario a delle problematiche alla base delle proposizioni artistiche. La realtà diffusa delle cose è comunque al momento ben altra. Possiamo infatti dire che ci troviamo in una zona di confine, o se si vuole nel mezzo di una fase di passaggio, in cui lo scambio tra l’arte e quello che genericamente e per brevità definiamo come il resto è reso possibile dall’immagine, centro gravitazionale delle attenzioni e delle ossessioni della cultura alta come di quella bassa. Grazie ad essa si percepisce lo sforzo dell’arte di ragionare su quelle che sono le nuove possibilità e urgenze, pur mantenendo uno stretto rapporto con la propria storia. Un dato interessante è che oggi all’immagine si perviene con una scioltezza e una mobilità linguistica che non esclude nessun mezzo espressivo, ma che di volta in volta viene scelto in corrispondenza ai propri bisogni espressivi. Un tale atteggiamento impedisce una didattica suddivisione in generi e, se da una parte riannoda le fila di una continuità storica con le esperienze degli anni settanta, escludendo l’ortodossia di certi atteggiamenti sopravvenuti nel decennio successivo, dall’altra pone l’immagine come una questione più di ricerca continua del senso e delle relazioni che l’hanno prodotta e che a sua volta produce, piuttosto che di una risoluzione che si mantiene tutta all’interno di una modalità stilistica e formale.
E così arriviamo, sperando che tu, egregio lettore, abbia avuto sufficiente pazienza, al caso dell’Antonello Matarazzo, che di questi tempi si trova a dipingere quadri nell’autorimessa in quel di Avellino. La tentazione di definire le sue immagini, quei cucchiai e forchette che si allungano come serpenti, come esempio di una specie di surrealismo, liquiderebbe la faccenda in modo tanto semplice che tu mi guarderesti un po’ sorpreso. Ma così non è. Certo parlare di una visione allucinata degli oggetti del nostro più banale quotidiano è possibile, ma comunque non sufficiente ad esaurire gli argomenti del lavoro. Le ragioni del nostro sono infatti più legate alle questioni sopra accennate. Il paradosso del soggetto e in particolare dei modi in cui si presenta, è intrecciato, e in definitiva lasciato in secondo piano, rispetto alla consapevolezza di essere ormai alla fine di una parte della storia, dove non è possibile nessuna rivoluzione dipingendo forchette piuttosto che automobili. Credo che su ciò siamo ormai tutti ampiamente d’accordo. Niente di strano, l’arte è sempre stata ben dentro il proprio tempo, epocale per sua natura e scelta. Quindi se questo è un tempo interlocutorio, di raccolta prima dello slancio in avanti verso chissà dove, l’arte non fa che rendere più esplicita una tale condizione. Guardando questi quadri noterai che sono dipinti con una cura e un’attenzione maniacale, ma non per raggiungere una maggiore fedeltà, o meglio uno smaccato iperrealismo che richiami all’immagine elettronica, quanto invece cercando di ottenere una specifica qualità pittorica che è riconducibile alla migliore tradizione italiana. Qual’è il significato di questa scelta? E’ tutta lì sotto i tuoi occhi: lo spazio della pittura permane come spazio di una necessaria libertà espressiva, in cui una forchetta o un cucchiaio rappresentano solo un passaggio visivo ad una dimensione immaginativa che nonostante tutto è lì che attende dentro di noi.

(dal catalogo Dodicietrenta, edizioni Art Now, Capua CE 1995)



Oggetti nudi

Art Now, l'importante galleria d'arte che ha saputo trasformare Capua in uno dei grandi centri di riferimento dei pittori italiani, ha cambiato sede e oggi si trova in uno dei grandi incredibili palazzi del Corso Appio, in una luminosa sala cui si accede attraverso un cortile di palme e qualche rosa.
La mostra questa volta è di quelle che fanno pensare: un giovane artista dal grande futuro, Antonello Matarazzo, espone quadri sapienti nei quali ritorna a essere protagonista la pittura. Sembra ovvio, lo sappiamo, ma nei fatti non lo è per nulla ove si pensa ai tanti artisti che sempre più spesso privilegiano il laconico messaggio ai pennelli, ai colori, alle forme.
Per Matarazzo protagonista è l'immagine che si espone, si denuda, si snerva in tutte le sue possibili forme a divenire altro da sé, pur senza mai né rifiutarsi né annullarsi, facendo anzi sforzi evidenti per conservare l'identico a sé senza il quale si precipita nel nulla.
Ha scelto un tema il giovane artista, quello delle posate quotidiane, forchette e cucchiai, che danzano e si contorcono sulla tela come derwishi fino a diventare languide onde o guizzanti serpenti, fino a mangiare e assumere in sé ogni altro colore in una bulimia baconiana che è propria dell'aggressiva forchetta.
Il cucchiaio, più paziente (o più sornione, se si vuole) si limita a chiamare intorno a sé un caldo colore lavorato con sapienza e si offre con la coppa rivolta verso l'alto in attesa.
Ciò detto dobbiamo pur aggiungere che un'altra mostra tutta da fare è nascosta nel deposito della galleria: qui troverete quadri sui quali eleganti bottiglie si fanno danzatrici di Giacometti (ma sì), quadri che chiamano a protagonista il cappello fatale di Joseph Beuys o la scarpa iperrealista di qualche americano che abbia studiato a Brera: dipinge Matarazzo, non lancia messaggi sulla dipintura né invoca l'impotenza della parola pittorica, dipinge forchette o cucchiai o cappelli che lasciano il quotidiano e le sue silenti banalità per farsi potenza di onda color terra di Siena.

Jolanda Capriglione
(IL GIORNALE DI NAPOLI - 14/07/95)



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