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Il morphing dell'anima Bruno Di Marino Nel vedere per la prima volta i video di Antonello Matarazzo, magari dopo aver visitato una sua mostra di quadri, si rimane colpiti dal fatto che in lui le due attività – quella di pittore e quella di videoartista o videomaker – rimangono piuttosto separate, distinte. I suoi film (film, non video, come lui giustamente li chiama nei titoli di testa), almeno a un primo impatto, non sono necessariamente legati alla ricerca pittorica. Ad eccezione forse di The Fable (2000), La camera chiara (2003) e Warh (2003), che costituiscono una sorta di trittico, in cui l’interferenza tra immagine fissa (fotografica), la sua rielaborazione (pittorica) e la messa in movimento (filmica), diventano il fulcro intorno al quale ruota un pensiero sulla memoria (immobile/immutabile) del passato e sulla visione (in fieri e instabile) del presente. Sono per inciso lavori che si prestano, a differenza di altri, sostenuti da una struttura maggiormente narrativa, ad essere fruiti anche sotto forma di installazione. La camera chiara – che approfondisce il discorso iniziato con The Fable – è una sintetica “storia degli sguardi” ricavata dalle foto del Centro Guido Dorso di Avellino. Barthes, nell’omonimo saggio, dedica molte pagine al fatto che la fotografia consente ciò che il cinema proibisce: guardare in macchina, riflettendo poi sul suo infondere una coscienza non dell'esserci della cosa, ma dell'esserci stato. Matarazzo sembra lavorare proprio su questo concetto, rendendolo però ambiguo, sfumato, poiché – a differenza dello scarto che Barthes ritiene ci sia tra cinema e fotografia – oggi, nell’era del digitale, il tempo del video e quello della fotografia finiscono col coincidere, grazie per esempio al morphing, che plasma la materia elettronica come fosse una scultura, permettendo di trasformare un volto fotografico in un altro, in modo da suggerire una continuità anche somatica, a volte genealogica, antropologica dei volti. Ma il morphing non è solo un procedimento tecnico, è anche la materializzazione visiva di una metonimia: nel finale di Miserere, ad esempio, la trasformazione dell’uomo in una bambina che ride è un ritorno alla purezza primigenia. Matarazzo sceglie di isolare alcune figure (in gran parte bambini) all’interno dei ritratti fotografici, di rielaborarle cromaticamente o luministicamente, rendendo non solo ancora più ectoplasmatiche le figure, ma creando un gioco di infinite combinazioni. Ed è qui che emerge senza dubbio la sua natura di pittore, non tanto perché si confronta con l’immagine fissa piuttosto che con quella in movimento, ma proprio per la sensibilità, per la possibilità di dare un senso narrativo solo attraverso la texture, la trasfigurazione verso l’astratto. Warh estremizza ancor di più il discorso e il contrasto tra posa e movimento. Ai ritratti fotografici in primo piano trasformati dal morphing, vengono aggiunte come sfondo, sequenze solarizzate di guerra: i bombardamenti notturni su Bagdad, mig che sfrecciano nel cielo, le drammatiche immagini dell’11 settembre (che occupano tutta la parte finale del video), scandite di tanto in tanto da un fiore di Warhol (da qui il gioco di parole del titolo) che funziona da contrappunto e rafforza l’idea di collisione tra immaginari che sembrano lontanissimi: l’esserci stato e l’essere, l’arte e la guerra; così il tema non è tanto la memoria del conflitto, quanto i conflitti (visivi, mentali, percettivi) generati dalla memoria, dalle immagini video-foto-pittoriche che entrano in un infinito cortocircuito. I lavori di Matarazzo sono indissolubilmente legati al territorio in cui l’artista vive: l’Irpinia. C’è un forte sentimento di appartenenza a un luogo e al tempo stesso la capacità di descriverli, di rappresentarli con un distacco ironico, con uno sguardo marziano. L’Irpinia vista dalla luna, insomma. Lo strano visitatore di Apice (2004), rappresentante di commercio o alieno sotto vesti umane, che ripiomba in questo paesino del beneventano totalmente abbandonato (forse per via del terremoto), è il muto testimone di una realtà molto italiana, fatta da migliaia di piccoli borghi antichi desertificati perché gli abitanti hanno preferito andare ad abitare in orrende case di osceni paesi ricostruiti ex-novo a valle. Ma è anche il protagonista di un quadro metafisico, di uno spazio irreale e carico di atmosfere e di sospensioni. L’Italia del Sud, dove Matarazzo vive e lavora, è piena di questi paradossi urbanistici, di questi scarti esistenziali. Naturalmente il livello “sociologico” passa in secondo piano, l’attraversamento del borgo fantasma – che sembra, incredibilmente, sia stato abbandonato appena il giorno prima – serve all’artista per rimarcare un’estetica dello svuotamento (esteriore ed interiore, che tocca la nostra coscienza collettiva). Il set “naturale” a sua completa disposizione, come un intero villaggio western, gli serve ad aggiungere un altro tassello al suo “surrealismo irpino”. Come per esempio in Mi chiamo Sabino (2001), ritratto di filosofo pazzo o meglio di pazzo filosofo, che parla a ruota libera per le strade di Avellino. Lo sguardo di Matarazzo alterna alla camera a mano freezata che segue nervosamente e ossessivamente questo strano personaggio con il basco, la panoramica della città vista dall’alto, immersa in un silenzio bucolico e assurdo. Il contrasto formale tra la parola non-lineare e caotica di Sabino e la rassicurante veduta della città è netto. Ma il significato del video è forse più profondo, ed è nel labile confine tra natura e civiltà: Avellino è una strana città (e neanche tanto piccola), totalmente circondata dal verde; così, a pochi metri dal corso principale, ci si ritrova improvvisamente in mezzo alla campagna. Allo stesso modo è molto esiguo lo scarto tra normalità e follia, razionale e irrazionale. Lo sfondo principale in cui è ambientato Miserere è il paesaggio di archeologia industriale di Bagnoli, il porto con le enormi gru, le colline di Lacedonia dominate dalle moderne e asettiche silhouette delle pale eoliche. I personaggi che si aggirano in questo spazio tanto “vissuto” e consunto – dove il tempo insieme alla salsedine si è raggrumato, incrostato –, quanto irreale e lunare, sono uomini e donne in sedia a rotelle, che si muovono inquieti ma non rassegnati. Intorno a loro non c’è solo un senso di desolazione, quanto un’indefinita atmosfera di sospensione e di attesa, per qualcosa che non accadrà. Intorno c’è il mare, il vento, la terra, il fuoco (interiore), il sangue, la sofferenza, ma anche il piscio, la fame, la saliva, la schifezza evocata nelle parole di una lenta ballata, dalla musica, dal ritmo su cui è costruito tutto il video. Miserere è un’apologia della disperazione muta (nessuno di questi personaggi parla) e al tempo stesso gridata attraverso un canto antico, ancestrale. Le didascalie finali che ci raccontano le storie di questi personaggi, ne certificano la loro autenticità di persone, distinguendole dagli attori, e quindi aggiungono – insieme alla processione del Venerdì Santo di Guardia Sanframondi, ripresa in un bianco e nero sgranato – un valore “documentario” al video, in cui la sofferenza reale è trasfigurata con una capacità visionaria e al tempo stesso asciutta, calibrata, che ne fa uno dei lavori più intensi ed efficaci di tutta l’estetica matarazziana. Se la versione più breve (Miserere cantus) è una sorta di trailer di Miserere, o meglio di vero e proprio “videoclip”, in cui la musica di Canio Loguercio copre tutto il visivo e non vi sono più pause, vuoti sonori, A Sua immagine può essere considerata un’appendice di quello stesso video e ne approfondisce la significativa frase finale: «dedicato a tutti coloro che non possono affermare con certezza che Dio esiste». I personaggi sono gli stessi di Miserere, l’ambientazione anche, così il gesto di battersi il petto da parte dei disabili sulla sedia a rotelle, replica il gesto dei “vattienti” in processione: è la preghiera rivolta a una eventuale divinità da parte di chi attende un miracolo, una improvvisa guarigione? O è un’invocazione verso colui che li ha dimenticati, che non è stato generoso nei loro confronti? O ancora: è un rituale meccanico, svuotato di senso e anche un po’ sarcastico nei confronti di una religione, quella cattolica, basata sul sacrificio e sulla sofferenza dei singoli? Le interferenze (tele)visive che disturbano la scena e lasciano affiorare in superficie il “papa buono”, possono essere lette come uno squarcio, un passaggio dal terreno al divino, appunto, a sottolineare una discrepanza, un contrasto tra quello che dovrebbe essere un dio giusto e misericordioso – perlomeno nel nostro immaginario rassicurante – e quello che si rivela effettivamente nella realtà di ogni giorno. Ma c’è un’ulteriore, possibile interpretazione di A sua immagine che lo renderebbe più surreale e meno polemico: ovverosia che il Padreterno è un paralitico e che quindi i disabili in carrozzina sono i suoi seguaci. Ciò che sorprende nell’immaginario video di Matarazzo è che forse è l’unico artista italiano – attenzione non “videoartista”! – che sa davvero usare il video, sia dal punto di vista estetico che tecnico, di linguaggio filmico. A parte i tagli di inquadrature, la bravura nel comporre le immagini, tutte di forte impatto visivo – e questo è tutto sommato normale per un pittore come lui – Matarazzo ha una sensibilità squisitamente cinematografica, per il ritmo, il montaggio (Apice è esemplificativo non solo della sua cifra stilistica, ma anche della sua abilità di montatore, e così anche En plain air), per gli effetti sonori, per la costruzione complessiva dei suoi lavori. Inoltre riesce perfettamente a combinare insieme l’elemento sperimentale, quello narrativo e quello documentaristico (o anche documentativo, nel senso di utilizzo del materiale d’archivio), proprio grazie alla capacità di manipolazione info-grafica, che non si risolve tanto nella gamma di effetti speciali offerta dai software di post-produzione, ma in una consapevolezza visiva e in un’abilità tecnica propria di chi conosce la pittura e il dispositivo artistico in senso universale. (dal catalogo 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ed. Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006) ) Passeggiate nel cinema Europa, Americhe, Asia: otto giorni tra lo sperimentale e lo Spazio Video, un tranquillo viaggiare che non delude e stanca mai. [...] Parla anche italiano invece lo Spazio Video, che tra l'altro dedica una doverosa messa a fuoco all'opera quasi completa di Antonello Matarazzo, artista avellinese. La ripetizione disturbata è probabilmente la cifra stilistica che collega, come un filo percorso da corrente elettrica, le sue prime opere, in cui rompe la quiete degli sguardi (e dei cuori) di vecchie fotografie e il loro sonno nella penombra del tempo, con l'ultimo lavoro (2006) che porta proprio questo titolo, Interferenze, girato durante l'omonimo New Art Festival di San Martino Valle Caudina. Provincia di Avellino, naturalmente: la città che in Mi chiamo Sabino (2001) si affaccia più volte, come sdraiata all'alba in un languido dormiveglia, materna e insieme indifferente ai deliri del matto. Da 'lei' Matarazzo sembra disposto ad allontanarsi al massimo di una cinquantina di chilometri, e solo se ne vale davvero la pena. È il caso di Apice vecchia, il borgo dell'Irpinia abbandonato da un quarto di secolo, ma lasciato inspiegabilmente intatto dal terremoto, abitato da lucertole e chissà da fantasmi allertati in modo palpabile da un protratto risuonare di passi sconosciuti: e non a torto, visto che si tratta di un commesso viaggiatore intenzionato a ripopolare il paese con animaletti meccanici telecomandati. Elegia del 'silenzio che vive' e ironia non meno 'pungente' (termine adatto alle numerose soggettive di api incuriosite alla vista di un umano deciso a godersi insieme a loro la pace di un campo di girasoli) sull''interferenza' dell'uomo nella natura nei 10 minuti di En plain air (2005). Apocalittico e smisurato invece solo lo scenario che fa da sfondo, con le gru nere del porto che emergono dalla nebbia e la scansione artificiale delle pale eoliche, ai mastodontici reperti corrosi dalla salsedine dell'ex area industriale di Bagnoli poteva contenere tutta la sofferenza, e insieme la ieraticità sacrale, degli invalidi che lo attraversano al canto del Miserere. L'imperfezione è cosa divina: Dio stesso si manifesta, disturbando con misteriose scariche la visione dei disabili che, con cadenza ritmata in crescendo, si battono il petto (A Sua Immagine, 2005). "[Nel corpo] ... è possibile rintracciare la chiave di lettura dell'incorporeità": a sostegno di questa affermazione di Matarazzo non posso non citare lo stesso regista che fa l'amore con una scarpa da ginnastica (Lovers, spot per Converse, 2004) e il cuoco di Interferenze che, in un ombroso interno prospiciente la piazza dove fervono le prove dei gruppi musicali, si dedica alla preparazione di dolci alla crema stile grande bouffe, degni della sua stazza di almeno duecento chili. Il suo risveglio, con la telecamera che riprende il profilo del ventre supino, le gambe e i piedi giù dal letto, le piastrelle di cotto, il bagno, la scala, è quasi una citazione di Carlo Michele Schirinzi, a sua volta artista e videomaker (con Matarazzo ha collaborato nel 2002 alla realizzazione di Astrolìte) che lavora sulle immagini e sui suoni per affrancare i corpi dal peso del simulacro indicando a essi (esso) la via verso una sorta di 'santita'. [...] Adelina Preziosi (SEGNOCINEMA - anno XXVI, N°141 sett/ott 2006) << |