home | opere | installazioni | video | docu | bio | biblio | testi | contatti |
p.I.T.t.u.r.a. – Ipotesi figurative italiane Antonello Matarazzo è artista di confronti estremi. Il corpo umano mantiene centralità in questo viaggio pittorico per cicli tematici. Una fisicità fatta di alterazioni, mostruosità, devianze, brutture... un percorso nel rimosso delle coscienze, nel cancro estetico che non vorresti scoperchiare. Ma è anche un racconto di verità individuali, di storie borderline dove quel che vediamo è solo apparenza, micromondi "normali" in cui a creare le "anomalie" ci pensano la retorica e la demagogia, la paura e il disprezzo, l'angoscia e la malafede altrui. Matarazzo sfida lo sguardo sul terreno della coscienza morale, attivando meccanismi interiori che sono figli del suo animo e del modo chirurgico di raccontarli. Guardate i visi degli "Innocenti", le protesi del ciclo Steak&Steel, le posture e l'abbigliamento dei "Meridionali"... nessun mondo da cartolina né un semplice passaggio da fotografia a pittura. Si sfidano, di contro, gli eccessi tecnologici, il culto per una bellezza artificiosa, gli immaginari senza personalità. Qualcuno potrà ritrarsi, non accettando la potenza visiva. Ma l'arte è così: nessun compromesso, nessuna risposta certa, nessuna medietà diplomatica. Pure scariche che talvolta fanno male. Gianluca Marziani (dal catalogo p.I.T.t.u.r.a., edizioni StudioSei, Milano 2006) Video o dell'opera totale in Antonello Matarazzo Alfonso Amendola "Il solo modo di fare della storia, ecco cosa direi. La mia idea è che questo era l'unico modo possibile per rendersi conto che io ho una storia in quanto io, e che se non ci fosse stato il cinema, io non saprei di avere una storia in quanto io. Era la sola maniera, ed io al cinema devo questo" Jean Luc Godard 1. Per inizio Il video definitivamente è dentro le pratiche dell'arte contemporanea. Prima come semplice supporto, poi come elemento caratterizzante l'avanzamento della sperimentazione(1) ed ora come necessaria protesi(2) al divenire rizomatico delle arti della visione. Nel circuito in cui vanno a svolgersi le sfide di metamorfosi delle innovazioni tecnologiche connesse ai sistemi dei media e della creatività, l'universo (spazio) del video(3) copre un'area sempre più privilegiata ed attrattiva. Il discorso, è cosa evidente, apre ad un fronte di teorie e di pratiche che ci invitano sempre più a ragionare seguendo un transito socio-culturale che deve sapere tener presente la visionarietà della sperimentazione e delle forme d'avanguardia da un lato ed i saperi, gli sviluppi e gli avanzamenti tecnologici dell'industria culturale dall'altro(4). Con il video e grazie agli sviluppi delle neo-tecnologie l'intera compagine artistico-sociale subisce una profondissima alterazione psico-sensoriale. L'immagine ri-prodotta diventa il mezzo di comunicazione cardine di un'epoca decisa a bruciare ogni tappa nel nome della velocità e della contaminazione. "Non c'è più nulla, o quasi, che non passi dallo schermo catodico. Testo, immagine, musica, desktop publishing, ipertesto, tv ad alta definizione conoscono uno sviluppo senza precedenti"(5). Sviluppo che porta l'artista-homo videns all'aspirazione di poter determinare, tramite l'utilizzo del computer, l'opera totale in una continua dimensione di contaminazione e ricerca. Ed il tema del tempo, del suo abbreviamento, nell'epoca video-interattiva, resta la dimensione attorno alla quale si costruisce l'intero apparato della video comunicazione contemporanea. 2. "Cinema liquido su tele e foto" Il dispiegarsi continuo di forme sperimentali verso il video continua ad indicarci la più sostanziale "estensione dell'esperienza di sé(6), lasciando intravedere vastissime prospettive per il futuro dell'arte. Video come prospettiva e continua reinvenzione delle arti, ma anche pelle ed esteriorità (per Artaud il cinema doveva essere "il derma della realtà") come rappresentazione del sé artistico, di un sé inserito nella cornice dell'apparente, del simulacro, per svolgere un legame prettamente inter-sociale in cui sviluppare, con estrema complessità, un lavoro all'interno dell'apparecchiatura consumistica del quotidiano ma anche come ripiegamento composito di tutti gli statuti della memoria. Ed è proprio il tema della memoria su cui lavora Antonello Matarazzo nella sua prima opera video, opera che l'autore avellinese preferisce definire "cinema liquido su tele e foto" (stabilendo da subito la sua idea di contaminazione e di spazi visivi esplosi tra loro amalgamati(7) ). The Fable (2000) è un video di 9 minuti dove scorrono volti immobili e perduti nel tempo. La matrice di costruzione resta l'impianto della pittura e della fotografia, ma l'opzione video comincia a definirsi da subito. Realizzando un'opera video che gioca su temi forti quali: il tempo, l'anonimato, la morte. Ma soprattutto quello che risulta più intenso e bruciante resta il senso dell'antico come mai sepolta tragicità. Il tutto lavorando soprattutto verso l'intensità dei volti "volti che hanno qualcosa in più dell'antico e dell'essere legati solo ad un'altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche"(8). Immettere la propria idea di arte nel video vuol dire abbandonarla, mandarla in una dimensione ipervisiva, in uno spazio denso di canali, rimandi, ripensamenti, tradimenti, interferenze, nuove azioni. È Martin Heidegger ad affermare che: "L'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero si appartengono l'uno all'altra. Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo all'interno del mondo della tecnica"(9). Nell'era digitale il nuovo terreno è il non-terreno, è il luogo-altro, è lo spazio-altro, è l'estensione fittizia in cui traslocarsi... tutti temi, a nostro giudizio, propri dell'esperienza video. Con The Fable siamo ancora nello spazio dell'arte, tra fotografia e pittura. Il video, quindi, nella sua fase di iniziale sperimentazione, resta per Antonello Matarazzo stretta e continua riproduzione di fotogrammi. Ma con il lavoro successivo Le cose vere (2001) il dialogo verso il linguaggio audiovisivo diventa più determinato ed operativo. Dal fotogramma fisso all'immagine-movimento, si potrebbe titolare questo passaggio. C'è cinema già a partire dalla storia. Un gruppo di amici vuole girare un film giallo, ma la "crisi" del cinefilo primo attore spingerà la troupe a realizzare una sorta di "film-reality" centrato sulle crisi emotive ed intellettuali del protagonista. Il video è anche un prezioso omaggio al cinema e gioca, quindi, sul sempre complesso piano del "metacinema". Logicamente restano tutti i temi che sappiamo esser dentro le pratiche visive di Antonello Matarazzo: la ripetizione come necessità esplorativa e potentemente creativa, gli scenari del suo territorio, la plasticità dei volti, le dimensioni dell'ossessività, le trasfigurazioni dal visionario al reale, i silenzi assordanti, "le cose vere" di una quotidianità che può essere vorace, fragilissima e disperata. 3. L'altro reale La tecnologia video-televisiva ha determinato conseguenze tali da non poter più pensare a dimensioni creative sprovviste di siffatti dispositivi. Dispositivi che possono al contempo lavorare sulla pura visione, sulla narrazione, sulla stretta documentazione. Dispositivi che lavorano sui tessuti complessi lacerandoli, piegandoli e nel metterli in scena "audiovisiva" li rivolta verso nuove riflessioni. "Per la sua produzione specifica, l'immagine televisiva comporta delle caratteristiche che gli altri mezzi di comunicazione non hanno e che, anche se non li analizziamo, influiscono sulla nostra percezione. Per noi, l'immagine nasce direttamente dall'invisibile, senza transizioni e senza supporto, senza abbozzo né traccia [...], dalla vacuità dello schermo al pieno mobile dell'immagine. È come se si realizzasse un passaggio senza transizioni dal non-esistente all'esistente"(10). Il fruitore video-televisivo (al di là delle facili retoriche dell'iterazione) vive un rapporto d'impotenza con le immagini che percepisce, un rapporto monologizzante in cui predispone la sua propria persona ad una costrizione dell'assorbimento: egli può leggere le immagini ma mai comunicare con esse per cui l'immagine assimilata ha l'esclusiva assoluta. Chi guarda è costretto a restare fermo, in una zona premarcata che possiamo indicare dell'assorbimento passivo e veloce. Ma se da un lato lo spettatore resta cristallizzato nel suo ruolo, la scena interna vive di ulteriori variazioni. Il reale viene "cancellato" e riorganizzato. Con il video Mi chiamo Sabino (2001) la sfida di Antonello Matarazzo è totalmente contenuta nelle dinamiche espressive del documentario, del raccontare il "conosciuto", dell'attaccare le consapevolezze dello spettatore e, ancora una volta, nel cercare nello specchio molteplice della comunicazione video nuovi modelli di ricerca espressiva. Il racconto della follia, immerso tra "universi giustapposti e complementari", dentro uno spazio geografico (che come dice lo stesso personaggio del corto nel tempo si è tramutato in "...una galera tutta lapidi"), tra un sonoro minimal e naturale diventa un pretesto per continuare il personalissimo viaggio visionario dell'autore. 4. La tele-visione ovvero la percezione e la mutazione L'inscindibile relazione simbiotica video-tv va individuata negli sviluppi e nelle ricerche che hanno portato alla registrazione videomagnetica e all'opportunità di trasmettere, su ampie distanze, immagini corredate di suoni. Il video inteso come schermo, come superficie su cui (e in cui) lo sguardo si attualizza è, di fatto (assieme al concetto di attraversamento per mezzo della rete), il centro di questa nostra riflessione. Tocca ora ridefinire tale concetto e stabilire qual è lo snodo teorico ed espressivo tra cinema, TV e video (e successivamente il web) e in che modo le operazioni audiovisive di Antonello Matarazzo vanno ad inserirsi in questo articolato paesaggio. Prima di fare questa differenza bisogna però tener presente la superficie. Ogni sguardo ha nel rapporto con lo schermo dei suoi limiti spaziali. Lo schermo infatti può essere di grandi dimensioni e di piccole dimensioni. Definizione che, per quanto popolare possa essere, distingue e specifica già di per sé, in linea di massima, i diversi caratteri del dispositivo cinematografico e del dispositivo video-tele-visivo. Si tratta di valori di scala di rimarchevole importanza, valori che la psicologia della percezione ha fatto risaltare nei proprî studi come componenti che vanno ad avere implicazioni decisive nel rapporto tra il doppio regno: del suono e dell'immagine. A seconda che ci si riferisca al dispositivo cinematografico o al dispositivo video(11) possiamo parlare di predominanza dell'immagine o predominanza del suono. La predominanza dell'immagine, riferita ovviamente al cinema, è conseguenza, come abbiamo appena detto, tanto della dimensione dello schermo cinematografico quanto (e questo è un punto di separazione incisivo) quella della condizione del buio scenico in cui il fruitore s'immerge. Il rapporto dello spettatore cinematografico con la superficie è sempre, in senso lacaniano, rapportato ad un potente gioco di specchi. Ma fermiamoci qui per non andare oltre. Ciò comporta che il dispositivo audiovisuale elettronico può essere assimilato anche a luci accese trovando così la sua dimensione in quello che abbiamo definito regno del suono. In questo regno (dello schermo TV) il grado di partecipazione dello spettatore è ben diverso da quello attivato dallo schermo cinematografico. In sostanza (come più volte sottolinea Christian Metz) la dimensione dell'immagine cinematografica genera una sorta di immersione, di avvolgimento dello spettatore che vive, tramite la percezione delle immagini, un distacco dalla realtà, cosa che non accade per l'immagine televisiva la quale, per la sua stessa spazialità ridotta, indurrebbe ad un certa indifferenza, o meglio costante coscienza del luogo in cui si è situati. È Berger a sottolineare che: "La riduzione dell'immagine comporta un minor grado d'implicazione, che lascia allo spettatore un sufficiente margine di autonomia per cui può restare fuori"(12). Dopo aver tracciato in linea di massima alcuni aspetti fondamentali che differenziano il grande schermo dal piccolo schermo, non resta che andare nel cuore del discorso. Quello che vede nel video un post-cinema e al contempo una post-TV. Dal cinema il video acquista la volontà di rappresentare una costellazione simbolica che si rivolge all'animo umano, ma che è irreparabilmente sempre altra. Dalla televisione acquista il regime di dominanza del suono tant'è che, il rapporto tra radio e video caratterizzerà tanto accese ricerche di compositori di musica concreta ed elettronica (John Cage e Philip Glass sono due tra i nomi centrali) quanto susseguenti espansioni dell'uso del video (videoclip, videodanza, videoteatro) che sarà anche uno degli aspetti più investigati dall'arte del video. Un trionfo di ragioni e passioni, un riflettere sui livelli della percezione e una riuscita sintesi sulla contaminazione estrema dei linguaggi che il video Astrolìte (mediometraggio del 2002, co-firmato con Carlo Michele Schirinzi) lucidamente evidenzia. Uno scritto di enrico ghezzi (qui anche attore, tra gli altri c'è anche Gabriele Perretta) apre ed accompagna il film: "La mutazione è una sorta di immagine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l'origine del cambiamento dell'umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, che ci mostra in modo più evidente quello che sicuramente sta accadendo anche a noi". Film immerso nei colori del nero, tra citazioni di Beckett e movenze fumettistiche, spazi ossessivi e immagini ripetute, il film è un viaggio (provocatorio, volutamente sgradevole, visivamente eccedente) verso un'ideale poetica dei margini e della deflagrazione del visivo, con un pretesto narrativo che strizza l'occhio nuovamente al cinema giallo. Astrolite è soprattutto una riflessione densa di sguardi e prospettive disarticolate verso gli universi del cinema, della televisione e delle immagini in movimento più in generale. Deformare lo sguardo sembra essere la volontà principe dei due registi. Ma anche riflettere sulla mitologia dell'esperienza televisiva. Più in generale, la questione della sperimentazione video trae la sua potenza formativa da una forte volontà critico-espressiva (ma anche introspettiva) che il video-maker fa del mondo in cui vive, un mondo filtrato attraverso schermi che trovano nella materia inconscia un resistente vuoto da cui trarre i materiali più disparati. Una potenza critica, decostruttiva, riflessiva, dunque che si rivolge contro i miti e i simulacri della degenerazione sociale. Staccandosi dalla realtà, il video si presenta come realtà altra, o meglio tende a produrre una realtà parallela a quella in cui viviamo. Ma non è una sur-realtà bensì una realtà che vive in un'altra dimensione. È una realtà in cui la cosa viene vaporizzata, ridotta a pura apparenza. È in questa new-dimension in cui tutto può accadere che l'essere si muove, si metamorfizza, nasce e contemporaneamente muore. "Video è diverso da televisione. O almeno è nato come qualcosa di diverso, nell'epoca in cui televisione significava, in primo luogo, fruizione passiva di programmi generalisti decisi altrove e diffusi soprattutto via etere a domicilio"(13). Bisogna pertanto addentrarsi nella concezione che la televisione è soltanto una delle diverse facce del prismatico video. Video inteso come protesi tecnologica, come nuovo, seducente e veloce linguaggio, come medium-strumento assoggettabile ai più svariati usi sociali. Riferirsi, a seconda dei casi, al video con termini quali tecnologia, linguaggio, medium o strumento (termine più generale che comprende qualunque operazione-video), ci permette, attraverso diverse sfumature semantiche, di cogliere le più dissimili forme di specializzazione che il video incontra. In questi termini l'estrema versatilità fa del video un'interfaccia (in termini di tecnologia, di hardware), tuttora padrona e prediletta, una sorta di inter-medium onnivoro, inter-medium che investe, traveste, e sveste tutto ciò che incontra. Sguardi onnivori... Precedentemente parlavo di sguardi, un tema che torna ciclicamente nei film di Antonello Matarazzo. Infatti il suo film successivo La camera chiara ha come centralità tematica proprio lo sguardo (una citazione di Barthes chiude questo lavoro: "Io vorrei una storia degli sguardi"). Quest'opera rappresenta anche un ritorno alla sua idea originaria di cinema-video. Ma stavolta attraverso l'amplificazione necessaria della dimensione digitale. Matarazzo lavora, con grande raffinatezza (come elegantissima è la scelta musicale dei Sigur Rós) nell'evidenziare inizialmente una parte della foto, scontornandola e mostrandocela quasi come la sua idea di "punctum" e poi ricollocandola, gradualmente all'interno del suo spazio visivo originario. Non c'è racconto, non c'è traccia drammaturgica e nemmeno volontà documentaristica. C'è la composizione del vedere, lo scandire il tempo della visione attraverso la "rappresentazione" foto-grafica, la mutevolezza dei segni in forma di luce, la fissità che indica l'estrema mobilità del tempo, le dinamiche densissime degli occhi. Così, se in precedenza Matarazzo ha lavorato sul video metapittorico, poi metacinematografico, poi metatelevisivo, ora è la volta della riflessione sugli statuti della fotografia: sulle composizioni della fotografia come profondissimo disegno della memoria e come raffinato esempio di voler ripensare nella nostra contemporaneità le possibili affezioni tra sviluppi tecnici e i livelli inconsapevoli della messa in posa: "Verso il 1840, affinché le lastre dei primi ritratti si impressionassero, bisognava che il soggetto si sottoponesse a lunghe pose sotto una vetrata in pieno sole; diventare oggetto, faceva soffrire come un'operazione chirurgica: fu allora inventato un apparecchio, detto appoggia-testa, una sorta di protesi, invisibile all'obiettivo, il quale reggeva e manteneva il corpo nel suo passaggio verso l'immobilità"(14). 5. Il video-testimone visionario Due date sono alla base dei video di cui di seguito parliamo, due momenti epocali differenti ma che hanno cambiato la pelle delle cose. E la ricerca video di Antonello Matarazzo ha voluto ricordarcele attraverso la sua idea visionaria e di contaminazione delle forme e degli stili. Con Warh (2003) Antonello Matarazzo nel parlarci di guerra tra i mondi omaggia l'entusiastico fiore di Andy Warhol. L'opera in digitale, che è stata definita un "film sulla vulnerabilità", parte dal dramma dell'11 settembre 2001 e attraverso un continuo flusso di immagini (rielaborate e decontestualizzate) ci racconta un devastato occidente (dove la dimensione mediale onnivora ed iper-informativa si tramuta in un canto tragico e visionario). Mentre Apice (2004) ci parla del terremoto che colpì l'Irpinia (e altre zone della Campania e della Lucania) il 23 novembre 1980. Il nome è quello di un paese colpito dall'evento naturale, ma dove non crollò alcuna casa. Questa particolarità tra le macerie degli altri paesaggi vuol essere un racconto sulla sopravvivenza come paralisi, sulla solitudine, sul silenzio. Ambedue i video vogliono oltrepassare gli schemi, rompere le pareti della normalità per approdare ad una riflessione fatta di novità, di esasperazioni percettive. Sulla base di queste video-azioni artistiche Antonello Matarazzo sembra riflettere sulla mutazione dell'idea di "cinema civile", comprendendo che può esser utilizzato qualsiasi supporto comunicativo per giungere ad uno scopo definito, uno scopo attraverso il quale trasmettere il rapporto (il più delle volte conflittuale) con il mondo in cui si vive. E qui tornano le lezioni lampanti di Warhol, Zavattini e soprattutto di Guy Debord(15). 6. Le prospettive del nuovo La superficie cambia. Si va oltre lo spazio piano, oltre le metamorfosi e le "mutazioni" della comunicazione. Si entra in una dimensione espressiva in cui tutto può accadere e gradualmente si modifica. Il mondo esplode prepotentemente sulla scena audiovisiva. Il rapporto spazio/tempo viene scardinato. Da un lato avvertiamo il mutare del tempo: prima ridotto ed esasperato al suo minimo comune multiplo e successivamente "costretto" a subire metamorfosi e variazioni. Dall'altro le mutazioni dello spazio: non riconosciamo più gli oggetti, il loro essere tangibili poiché, detto spazio si presenta, si rap-presenta come uno spazio altro, reale-immaginato e sempre più potente. Ogni spettro che noi guardiamo scivolare sulla superficie del dispositivo video vive, non solo una irrimediabile percorrenza di un tempo passato che riappare come presente (costante punto di incisione e ricerca nei video di Matarazzo), ma anche quella che è la dimensione assoluta della solitudine dell'artista che sa d'aver perso la dimensione della collettività alla quale sempre ambisce e che sempre dovrà cercare(16). Quello che vediamo attualmente nei video contemporanei sono corpi che fluttuano come messaggi codificati-non codificati in uno scenario in continuo mutamento. Messaggi che mostrano, nella vividezza della rappresentazione, una delicatezza persuasiva che sembra sorgere dagli interstizi dell'immaginario contemporaneo. "Mi piace immaginare che si conservino in una sorta di grande freezer dell'immaginario, tesori nascosti pronti alla disponibile gioia del detective teso a riattivare l'infanzia del nostro sguardo con la definizione più avanzata dell'universo parallelo dell'elettronica"(17). Il grande freezer dell'immaginario è il luogo, non più tavoliere (come suggerirebbe Eraclito) e dunque superficie in cui si costruiscono passioni, giochi, professionalità e sperimentazioni. È lo spazio in cui muoverci per inventare o per trascinare, e portare a nuova vita, alcune immagini(-emozioni) rimosse con gli anni. Invenzioni o riscoperte che con lo strumento video possiamo rendere con massimo splendore artistico. Invenzioni o riscoperte, ancora, che sono figlie dirette e predilette di una volontà estrema in cui continuamente ci immergiamo per ansia di ricerca, per desiderio di conoscenza e per devozione sempre rivolta ai futuri possibili nella ricerca del novum. (dal catalogo Steak&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005) NOTE: 1. Storicamente la prima esposizione di lavori sperimentali realizzati su monitor è di Nam June Paik e risale al marzo del 1963 presso la Galerie Parnass di Wuppental con il titolo "Exposition of Music-Electronic TV" (dove per la prima volta il televisore è trattato come strumento artistico). Cfr. Nam June Paik "Afterlude alla mostra di televisione sperimentale" ora in Valentina Valentini Le pratiche del video, Bulzoni, Roma, 2003, pp.19-25. back 2. La struttura tecnologica come protesi corporea ha sviluppato, nel tempo, un doppio filone di pensiero. Il primo tiene ferma la propria attenzione nel nucleo aristotelico che tende a ridimensionare il rapporto uomo-tecnologia favorendo l'aspetto puramente contemplante; il secondo muove, dal canto suo, a dispiegare l'importanza della tecnicità nella sfera psico-fisica dell'individuo. back 3. Il video (dal latino videre) è la parte specificatamente destinata alla trasmissione o alla riproduzione delle immagini. Dare una definizione all'intera portata del termine è impresa assai ardua. Il video è, nella sua propria conformazione, all'un tempo un io-vedo-e-vado-oltre, un dispositivo, un sistema, una tecnologia, una forma d'espressione, una comunicazione televisiva, una solida, o meglio materica interfaccia (schermo o monitor) verso cui tutto sembra tendere per ritrovare – nella luminescenza ove la matericità si perde per lasciare spazio alla corpuscolarizzazione – la sua originaria assenza di peso, il seducente percorso proteso verso un non-dove che lascia percepire la leggerezza dell'assenza. back 4. Per quanto riguarda l'articolazione storica e teorica di queste nozioni rimando alla fondante riflessione di Alberto Abruzzese presente in Forme estetiche e società di massa. Arte e pubblico nell'età del capitalismo, Venezia, Marsilio, 1992. Per analizzare l'immaginario contemporaneo nello specchio delle complessità delle tecnologie cfr. in particolare Gino Frezza "Introduzione" a Cinematografo e cinema. Dinamiche di un processo culturale, Bologna, Cosmopoli, 1996, pp.5-39. Per una definizione degli statuti critici nel contemporaneo cfr. Angelo Trimarco Post-storia. Il sistema dell'arte, Editori Riuniti, 2004. Per i temi legati alle pratiche, agli sviluppi teorici e al paesaggio creativo sviluppatosi, rimando ad almeno due testi di Gabriele Perretta (teorico del Medialismo, movimento nel quale il percorso artistico di Antonello Matarazzo perfettamente opera): Media.comm(unity)/comm.medium. Divenire comunità oltre il mezzo: l'opera diffusa, Edizioni Mimesis, Milano, 2004; id. art.comm. collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità acefale nella pratica dell'arte oltre la soggettività singolare, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2002. back 5. Pierre Lévy Le tecnologie dell'intelligenza, Synergon, Bologna 1992, p.73. back 6. Silvia Bordini Arte elettronica, n° 156 di "Art dossier", Giunti, Firenze 2000, p.5. back 7. Anche se enrico ghezzi sottolinea la necessità di chiamare direttamente i video di Antonello Matarazzo "film", come scrive nel testo del catalogo (dove compare anche uno scritto di Marisa Vescovo) che accompagna la mostra "Testimoni per caso" realizzata presso lo studio Vigato di Alessandria nel 2003. back 8. Giuseppe Gariazzo in "Cineforum", Anno 40 N° 7, Ago/Set 2000, ora sul sito www.antonellomatarazzo.it al quale rimandiamo per l'archivio bio-bibliografico oltre che per gli sviluppi del lavoro artistico in più in generale di Antonello Matarazzo. back 9. Martin Heidegger L'abbandono, Il melangolo, Genova 1989, p. 39. back 10. René Berger La tele-visione, Edizioni Paoline, Roma 1977, pp. 29-30. back 11. Qui intendiamo ancora il video in stretto rapporto con la TV. back 12. René Berger op. cit., p. 142. back 13. Elisa Vaccarino La Musa dello schermo freddo. Videodanza, computer e robot, Costa & Nolan, Genova 1996, p. 15. back 14. Roland Barthes La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, p.15. back 15. Cfr. Guy Debord Opere cinematografiche, pref. enrico ghezzi, Bompiani, Milano, 2004. back 16. Tutto il lavoro di Antonello Matarazzo è dialogo, costruzione e, come più volte sottolineato, contaminazione di forme e stili (in piena linea con le idee guida del Medialismo). Con il suo lavoro più recente, Miserere (2005), Antonello Matarazzo stringe un sodalizio professionale con il musicista Canio Loguercio. Per quanto riguarda il video, al momento esistono due versioni: una di 20 minuti con musiche originali di Canio Loguercio e Fabrizio Castanìa e un videoclip di 8 minuti, ma l'operazione è più articolata e punta a realizzare un vero e proprio lavoro multimediale fatto di immagini, storie, musiche, racconti ancestrali, spaccati rituali, antropologia e poi realizzazione di concerti, dvd, libri... una carovana dove troveranno eco tantissimi volti e nomi della creatività contemporanea. Per avvicinare il progetto in generale: www.miserere.info; da leggere anche l'intervista a Matarazzo e Loguercio su www.shortvillage.com. back 17. Gino Frezza "Il grande freezer dell'immaginario", in Videoculture. Strategie dei linguaggi elettronici (a cura di Sergio Brancato e Fulvio Iannucci), Artigrafiche, Università di Napoli 1988, p. 139. back ... à rebours de l'écran Gabriele Perretta ( questo testo è dedicato a Gigi, uno dei giovani attori di Miserere ) 1. In una sottile e ampia pubblicazione sul Thinking Sociologically, Bauman e May si chiedono perché le nostre identità stanno subendo delle trasformazioni. La risposta che danno appare piuttosto semplice: "non solo per l'introduzione delle nuove tecnologie, ma anche attraverso il ruolo crescente che i mercati giocano nella nostra vita quotidiana... le nuove tecnologie richiedono un aggiornamento costante delle competenze. Nondimeno, resta in piedi il problema di stabilire se noi usiamo tali mezzi in vista di uno scopo, o se i mezzi diventino uno scopo in sé"(1) . Diciamo pure che una simile argomentazione non ci permette solo di aprire questo testo, ma contribuisce anche – nel bene e nel male – a riflettere su un modo per evidenziare il quesito dei quesiti, che vale anche per l'arte contemporanea. Nell'hardware e nel software del reale affermiamo pure che il rischio di agire o di essere agiti dai mezzi esiste in ogni caso, sia se guardiamo il segmento che stringe insieme l'arte, il mercato e le tecnologie, sia se guardiamo la quota che tiene in piedi la nostra identità e la sfera delle nuove forme di comunicazione. Probabilmente, siamo comunque vittime o carnefici di una struttura comunicativa che passa attraverso lo schermo e che, oltre a stimolare potenza ed a pervadere "le tecnologie del sé", contraddistingue il peso in base al quale usiamo vivere e relazionarci nel mondo della medialità quotidiana. Ha ragione David Lyon a scrivere della società sorvegliata(2): di sorpresa vi accorgete che qualcuno o qualche cosa vi sta fissando o addirittura scrutando. Al bar notate una piccola telecamera che discretamente vi osserva, paradossalmente non si tratta di un remake di Nanni Loy! Per quale ragione rimane a fissare proprio voi? Perché apparite come un possibile avversario dell'ordine pubblico. La vita quotidiana è sottoposta al monitoraggio di uno schermo, un controllo continuo ed un attento esame tra schermi collegati e saturi di informazione. La società svizzera Sokymat produce ogni anno milioni di smart tag, dei piccoli transponder infilati in materiali di qualunque stampo. Un transponder è fatto con un circuito provvisto di un'antenna e include dati che hanno la capacità di esser letti a distanza da un ricetrasmettitore o da una postazione trasmittente. Il transponder immesso nel comando a distanza di un antifurto tramanda un codice che giunge ad essere identificato dalla centralina sistemata nel veicolo e dà facoltà di spalancare le portiere e mettere in moto l'auto. Una quotidianità schermatica ed apparentemente infinita, entro la quale siamo calati e dentro alla quale sopportiamo di svegliarci per affrontare un nuovo giorno, è il nostro universo. Un tempo si poteva dire che la televisione era la finestra sul mondo, oggi è il caso di dire che la televisione è il mondo. La vera strada, la vera piazza, il vero inconscio è la televisione stessa. Non è più possibile chiedersi come incide lo schermo sulla formazione del gusto, perché lo schermo e il gusto hanno subito una mimesi totale. I gusti, le preferenze, le mentalità sono disegnati e sagomati nell'architettura del video, il prime-time è la faccia stessa della gente! I mondi non sono più due: quello televisivo e quello reale; ne esiste soltanto uno: quello schermatico e basta! Questa quotidianità ha superato la forza e la potenza del paradosso che un tempo aveva la capacità di rivolgersi contro il discorso corrente e di invitare lo spettatore a guardare dentro ad una scatola ottica, in opposizione al motivo della tavolozza che compare nell'autoritratto di Annibale Carracci o nell'esibizione con la tela sul cavalletto in Las Meninas di Velàzquez. La sociologa della scienza Sherry Turale, nel 1996, magari con un po' troppo entusiasmo, raccontava delle posizioni sostenute dal classicista Richard A. Lanham in The Electronic Word. La lettura di un testo sullo schermo sovverte l'immagine tradizionale di una narrativa, offrendo a chi legge di modificare qualsiasi carattere e corso grammaticale e stilistico: "grazie al software adatto, spostare frasi e paragrafi fa semplicemente parte dello scrivere ... la vita sullo schermo non ha origini ne fondamenta. È un luogo dove i segni intesi come reali possono sostituire la realtà stessa"(3). Ma se questa rivoluzione ha investito in maniera totale il corpo e la mente dei mondi umani e naturali, è consequenziale che Bauman e May – con un affilato senso di preoccupazione – si chiedano: "... l'implementazione di valvole meccaniche e l'adattamento di protesi artificiali nel corpo umano potrebbero essere qualcosa di più che il semplice ripristino di una funzione "naturale", potrebbero eventualmente servire a sviluppare potenzialità umano-meccaniche. Le innovazioni tecnologiche potrebbero consentire maggior controllo, ma con quali conseguenze e per chi? Queste problematiche richiedono una comprensione che venga dall'esterno di un processo che non riconosce nient'altro se non le sue stesse razionalizzazioni"(4). 2. Con la rivoluzione informatica avvenuta sotto i nostri occhi, possiamo ribadire che lo schermo è divenuto una nuova totalità. E, per dimostrare quanto abbia intuito in maniera positiva Sherry Turale, va detto con Raphael Lellouche che sullo schermo la scrittura, il testo, non sono altro che una particolare riproduzione dell'immagine. Sullo schermo, o meglio dentro allo schermo, la scrittura è una tavoletta di cera dissolta, bruciata, arsa dalle fiammelle dei centomila collegamenti in rete(5). Il testo, che un tempo scalpellavamo, nel senso che con la tecnologia dell'errore artigianalmente costruivamo attraverso la nostra piccola portatile Olivetti, adesso si è dissolto nello spazio infinito dello schermo, inghiottendo finanche l'errore. Ecco perché risulta strano ed antipatico che sullo schermo, con tutti i correttori automatici, con tutti i programmi elaborati di video-scrittura, che sarebbero capaci di metamorfizzare e invalidare qualsiasi refuso o battitura sbagliata del testo, possa ancora comparire l'errore. Eppure, questo della scrittura, è un capitolo scottante della Storia, che dovremo ancora scrivere, perché è paradossale e assai incredibile e bizzarro che nell'attuale mondo degli errori sociali, delle incertezze epocali, delle paranoie politiche e dei conflitti economici ed etnici, siamo affidati ad una macchina che ha ingoiato l'errore. È come se il dispositivo informatico avesse ingurgitato la pratica della vita e il soffio vitale. Ma la verità è che lo schermo, fagocitando l'errore e la stessa scrittura, ha inglobato anche la macchina, rendendo evidenti le ragioni formali e visuali della storia della genesi della scrittura. Il segno scritto è divenuto dettagliatamente immagine e, quindi, parte dello schermo. La scrittura si è visualizzata ed ha condotto al suo estremo il tempo iconico del segno nel monitor. In esso è stato assorbito ciò che l'uomo aveva provato 5000 anni or sono a scrivere sull'argilla, sulla pietra, sul papiro e su altri materiali. Il proto-sumero pittografico si è risolto nell'immagine dentro lo schermo e, a questo punto, non è tanto importante il passaggio dal mezzo al mezzo, ma da un sapere ad un altro sapere. La struttura dello schermo, però, non si riduce ad un mezzo. Per il computer la digitalizzazione passa, finisce: perché se oggi non ho già più bisogno di digitare il mio testo, domani forse (ed è già realtà...) non avrò più bisogno neanche di dettarlo in un linguaggio-macchina riconoscibile. Domani il lettore dell'altra faccia, ovvero la faccia che è di fronte a me, avrà una capacità di memoria e di cognizione tale che mi permetterà di vedere in me l'altro da me, la mia cyber-faccia, un'interfaccia che comunque come me – o forse ancora meglio di me – più si interfaccerà e più acquisterà la fisionomia di un'altra antropologia(6). Ma qui siamo già in una fisiognomica che farebbe paura al dottor Paolo Mantegazza. Ecco il cyborg introdotto da W. Gibson e da B. Sterling, un cyborg che nella sua "altra faccia" (o interfaccia) avrà sempre e comunque qualcosa a che fare con lo schermo. Se il luogo d'elezione della nuova mutazione culturale è lo schermo, è attraverso di esso che davanti a noi si eleggerà il nostro nuovo interlocutore sociale. In prospettiva, un riassunto di quello che ho appena detto, potrebbe essere rinvenibile, in maniera quasi arcaica, in quella stimolante opera di Gary Hill che si denomina I Believe It Is an Image in Light of the Other, una videoinstallazione del 1991-92, dove lo schermo acquista una faccia umana configurata nell'architettura di un libro aperto e dove la scrittura si offre con una fisiognomica digitale al cospetto della nostra voglia di toccare lo schermo, invitandoci a fare ciò che attualmente facciamo sul nostro portatile attraverso il touch pad. Le evoluzioni della tecnologia sembra che dunque portino alla dissoluzione del mezzo in se stesso. In effetti la tecnologia nelle sue rapide tappe di evoluzione crea un dispositivo interno di autodissipazione delle sue conquiste, per aprire la strada a sempre nuove frontiere, Che bello sembra proprio che i media, come il colosso del capitalismo che sarebbe l'America, muoiono, spariscono, si annientano con le loro stesse "matrici", così come è successo per alcune altre civiltà della storia antica. L'ibridazione è il nuovo mostro, è la nuova gorgone in grado di correggere gli argini del suo stesso poderoso conflitto. I media si allenano a distruggere la loro identità di origine, agendo sulla medesima somiglianza ed equivalenza. Essi si moltiplicano e si assorbono, si generano così come in un'antica teogonia e si disperdono, variano e mutano la loro pelle, grazie all'intensificazione della loro stessa ibridazione. Questo significa anche che lo schermo è qualcosa in più rispetto ai media e allo strumento (instrumentum, registrazione). Lo schermo, con la sua capacità di contenere qualsivoglia forma di calcolo, riesce a includere qualunque antica tecnica di numerazione digitale e corporea, facendo apparire quelli che erano i nostri valori riconducibili alla nostra mano sinistra ed alla nostra mano destra nel modo che fossero dei replicanti della sinistra e della destra dell'altro. Così come nell'opera di Hill lo schermo è capace di contenere persino le origini della nostra scrittura, anche il corollario più sviluppato del nostro linguaggio corporeo si spinge oltre il sigillo e l'impronta su creta, impresse sulle facciate di un palazzo antico. Ed ecco perché la tecnologia ha sfondato la storia. Lo schermo non è il pittogramma, ma è la struttura del pittogramma e quindi è qualcosa in più di uno strumento, nel senso che è un sistema, un architettura potenziale che raccoglie gli attrezzi che collaborano a costruire (in latino struttura è struere): una struttura solistica o dissipativa, un organismo pluricellulare. Se non amate perdervi in chiacchiere, e volete giungere subito al sodo, prediligete l'immagine per l'immagine e non la critica, soprattutto quella che si fa troppe domande filosofiche, provate a pensare alla videoinstallazione di Nam June Paik Fin de Sieclé (1989, a New York Whitney Museum of American Art), di cosa si tratta se non di tanti schermi l'uno sull'altro? E cosa si esponeva quando Wolf Vostell nel 1975 realizzò Endogene Depression, se non schermi in attraente prospezione? Lo ricordo bene Nam June Paik alla conferenza stampa per Good Morning Mr Orwell (1983)! Guardava due mappamondi luminosi, indossando degli occhiali a forma di schermo (dei piccoli schermi retrattili). Nell'installazione TV Clock (1963-1982) al Witney Museum, invece, lo schermo si manifestava come il corridoio della memoria. La tecnologia ha bisogno di larghe tasche e di larghe economie! Più soldi e finanziamenti ci sono e più gli schermi aumentano: Tadaikson (1988), questa volta Paik al Museo d'Arte Moderna di Seul inventò uno Ziggurat, una torre infinita di schermi che al centro della sala teneva quattro cerchi di schermi a terra, più altre 32 circonferenze di monitor che si sviluppavano su sei piani di schermi. Lellouche ci conferma che gli schermi presentano svariati elementi di continuità con le interfacce di previi attrezzi conoscitivi. Lo schermo è l'ultimo prodotto di un'evoluzione dei congegni ergonomici, che sottende al rapporto uomo-macchina. Ma mentre le superfici precedenti non erano rimovibili dal luogo in cui venivano collocate, come i quadri nei Musei, l'interfaccia di uno strumento scientifico è trasportabile e il suo schermo non ti offre solo la possibilità di guardare ciò che la memoria riproduce, ma anche ciò che il programma di memoria permette di scrutare dentro, di guardare attraverso. Lo schermo del computer è capace di collegarsi a memorie del tutto indipendenti dalla propria localizzazione materiale. Le informazioni che compaiono sul mio schermo vengono da un altrove che mi dis-orienta il luogo, o la visualizzazione dei luoghi. L'informazione – e quindi il contenuto dello strumento – imbottisce una compagine, una forma tra le forme, che può essere in ogni dove, tanto da impadronirsi di un attributo di effettiva onnipresenza. Apologizzando i meriti dello schermo, Lellouche conclude dicendo: "... lo schermo indica una nostra nuova relazione col mondo... l'umanità è entrata in una nuova ecologia cognitiva e ambientale del proprio universo artificiale"(7). 3. Sin da quando è scoppiato il fenomeno del virtuale, le grandi indagini critiche si sono più volte soffermate sulla questione della macchina e della protesi. Più volte abbiamo letto nella saggistica internazionale che, a differenza delle ostentazioni di artisti come Orlan, le infinite possibilità offerte dalla cybercultura possono essere facilmente collegabili ai bisogni veri della gente. Le macchine virtuali, se sono ben congegnate e messe a punto, possono servire per aiutare la gente che non muove gli arti, che ha subito dei traumi fisici gravi ed è costretta dopo diverse operazioni a vivere su una sedia a rotelle. Naturalmente, il mondo dell'arte che si avvale di una tradizione concettual-simbolica, volendo continuare ad adottare questo percorso linguistico, non è in grado di intervenire nell'universo delle malformazioni naturali, genetiche e sociali che l'evoluzione del conflitto stesso con la macchina ha prodotto. Un'artista mediale (meglio ancora un non-artista) agisce all'interno delle possibilità che offre la struttura tecnica ordinaria della comunicazione e, come nel caso di Antonello Matarazzo, tale azione non prescinde dal fatto di avere un'idea particolare di questo comportamento linguistico. Potremmo dire che, l'idea agisce su una sintesi ritrovata nell'effetto multimediale dello schermo. Dobbiamo registrare il fatto che negli anni '90 vari artisti della scena europea si sono fatti attrarre dall'estetica del brutto e della sofferenza, ma forse tra questi i fratelli Chapman sono i più risolutivi, sintetizzando dolore e tecnologia nella celebre scultura del 1996 Ubermensch. A partire da tali presupposti, A.M. non deve essere considerato da meno! Come al solito A.M., pur non avendo la possibilità di essere gestito da un mercante o da un produttore che prenda in considerazione la sua difficile ricerca, ha individuato in tempi non sospetti la tematica forte del rapporto tecnologia/dolore, lavorando in anticipo sia per quanto riguarda la riproduzione dell'immagine digitale, il film e, soprattutto, la sintesi schermatica. L'Ubermensch dei Chapman è uno scienziato che raccoglie nella sua forma di vita la tragedia dello sviluppo tecnologico, l'uomo comune di Matarazzo era invece partito dalla configurazione di un simulacro della società dello spettacolo, per poi intervallarsi con la voce di Pacciani (il mostro di Firenze) e poi via via nell'illustrazione dei Freaks, dei Meridionali e degli ultimi Steak and Steel, per poi abbandonarsi(8) in un'apologia lirica dei Complaints (per dirla alla Jules Laforgue). Per sintetizzare la figura di Matarazzo potremmo dire che è un caso indicativo di media-maker, essendo ormai da anni inserito in un territorio particolare della medialità. Egli si offre alla sguardo dei critici più attenti per sottolineare il fatto che la dimensione artistica ordinaria è stata già superata, per cui chi vuole continuare a perseguire una strada sperimentale deve scoprire dall'interno l'universo della comunicazione e, quindi, deve associare l'immagine del tutore, del correttore ortopedico, con quella della pittura, della fotografia, del cinema e del video in maniera expanded (long-drawn-out). A.M., dopo vari anni di lavori pittorici, ha poi cominciato a condensare la sua tecno-immagine sulla riproduzione sottile di un piccolo schermo. Sia quando egli ha messo in pratica dei film (o come corto o come mediometraggio), sia quando ha effettuato dei video o delle foto, sia quando ha realizzato delle immagini pittoriche – anche se la narrazione e la disposizione cinetica del lavoro erano orientati a seguire la prassi della tecnica adoperata, i relativi prodotti si mostravano spesso disposti ad un intervallo, una sequenza di pause che esibivano grande attenzione per lo schermo, o per la tautologia di esso. Questo discorso vale anche per il lavoro fotografico che sottintende sia la ricerca pittorica sia la ricerca video(9). Insomma, dalla pittura al video, dalla fotografia al cinema, in A.M. ritorna lo schermo e la diagonale dell'immagine rientra – come dice anche Barthes – nel modo di un riflesso, a guisa di un immaginario generalizzato, dove tutto si trasforma in immagine e, in una sorta di dissolvenza incrociata, appare chez l'écran o a rebours de l'écran. Perché Matarazzo frequenta così tanta sofferenza e così tanti codici che sono sinonimi di vicinanza a messaggi di aggressione, di pericolo, di paura, di dolore e, diciamolo pure, di morte? Perché non può trascurare un pessimismo che lo stesso Barthes esprime parlando di fotografia: nessuno di noi che vive o giace nelle società avanzate può prescindere dal "consumo di immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più "false" (meno "autentiche") – cosa che, nella coscienza comune, noi traduciamo con l'ammissione di un'impressione di noia nauseante, come se, universalizzandosi, l'immagine producesse un mondo senza differenze (indifferente), da cui può quindi levarsi qui e là solo il grido di anarchismi, di marginalismi e individualismi: aboliamo le immagini, salviamo il Desiderio immediato (senza mediazione)"(10). In effetti, il desiderio di tendere ad una esaustività grafica dello schermo che neutralizzi le immagini della sofferenza, che orizzontalmente attraversino pittura, fotografia, cinema e video. in A.M. è una sorta di anarchismo e di marginalismo volontario, assai prossimo al nostro desiderio critico. È come se A.M. sostituisse all'immagine che giace nella società avanzata l'errore, il difetto, il trauma, il grido della differenza umana, una deficienza non facilmente sclerotizzabile, un tratto di malattia corporale evidente, tormentata dalla frizione con la macchina, che il lettore non può far finta di ignorare. Guardando le fotopitture della sua più recente produzione, e pensando ad alcuni dettagli degli scritti di Clive Barker, o Skip & Spector, andrebbe quindi suggerito ai critici che si esercitano a separare l'idea del "realismo idiota" rispetto a quello "psicotico" che, secondo Barthes, la fotografia può essere pazza o savia ma il suo "realismo resta "relativo o assoluto" fin tanto che si mostra in una mobilità rivulsiva", che denuncia ma contemporaneamente estetizza. Dunque, spetta poi allo spettatore scegliere i tratti salienti e i punti di fuga di questo schermo potenziale, di questo rapporto con il tritacarne. In effetti, se si confronta il lavoro di A.M. nel parallelo tra le ultime foto-pitture (schermi sofferenti li denominerei), il corto su La camera chiara e poi il Miserere (realizzato con le suggestionanti sonorità e parole di Loguercio), la teoria dell'écran è presto fluidificata, come direbbe Raphael Lellouche(11): i mostri sono pronti a lamentarsi davanti a noi, come se stessero recitando l'ultima parte de La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Se le vecchie pitture sono confluite nel cinema muto, le nuove fotografie – comprese quelle che si affannano ad essere riconosciute nella pratica digitale – sono i prodotti compressi dello schermo, provengono dall'elaborazione di uno schermo e verso lo schermo ritornano, come nuove e conflittuali paratattiche della medialità. Ecco perché lo schermo è ormai il canone, il registro, la nuova texture attraverso cui si collegano le tradizioni del montaggio pre e post mediale. Detto questo, dovrebbe risultare anche più chiaro perché tanti artisti mediali, come Fabriece De Nola, Giorgio Lupattelli, Silvano Tessarollo e lo stesso Antonello Matarazzo, li considero pronti a difendersi nell'operatività dell'immagine schermatica. Diciamo pure che, la duttilità e la rigidità della visione schermatica oggi è l'ulteriore conferma dell'esistenza della medialità e del medialismo, non solo come prassi dell'agire comunicativo generalizzato ma anche come agire nella lingua tecnica dell'espressione comunicativa. 4. Vi sono delle immagini dei nostri simili che, attraverso un sistema di rimando molto semplice, dovrebbero rappresentare le figure della memoria, così come nel caso della ragazza coperta dalla camera ad aria in Pneumokreutz di A.M.. davanti a quest'immagine si respira una strana atmosfera, in essa la camera ad aria si trasforma in una sorta di forcipe che ingabbia, in uno strumento di tortura, in un assedio dell'immagine stessa. Il materiale usato per rappresentare questa forma di disagio e di sofferenza è una pittura porosa e schermatica che si condensa nel particolare, come se fosse un tappeto della memoria. Montata sotto quello strano casco, la figura tende ad isolare l'espressione, sembra che riproduca l'espressione dell'indifferenza. È come se l'artista volesse testimoniare un palese montaggio per indicare e sottolineare l'estraniazione. La figura di donna, nonostante lo strumento di tortura imposto, non soffre e la pittura non è interpretata come una vera e propria configurazione dei tratti della sofferenza umana. Questo, però, non vuol dire che nella relazione di scambio tra l'umano e il tecnologico ci sia un'indifferenza. In seconda istanza – e qui davvero concettualmente – è lo spettatore ad essere additato come un alienato, che soffre in maniera prepotente della condizione schermatica in cui si insidia la figura storica riprodotta da A.M.. Infatti, guardando la sequenza della carne e dell'acciaio (steak and steel), è facile avvertire l'incongruenza tra le sofferenze e le alienazioni. Queste immagini mandano all'aria quella celebre frase di Saul Bellow che diceva: "La sofferenza è l'unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito". Se l'indice della sofferenza si trova nell'assenza di espressione drammatica di Pneumokreutz, questo non vale per le altre immagini della serie, dove una nutrita collezione di adolescenti, di corpi giovani, di bambini e di mutilati dal destino mostrano una fisicità che protende in un organo gestito e proporzionato dalla presenza considerevole dell'acciaio. Quindi, la figura di Pneumokreutz sembra leggera e sottoposta ad un bagno in un liquido amniotico, che rimane ambiguo tra il senso della pellicola cinematografica e la fotografia come documento d'epoca, e sfugge ad una percezione emotiva. Gli adolescenti malformati e con la spina dorsale bloccata in un tutore meccanico che li tiene in piedi, invece, ci consegnano la rivelazione di Giobbe: Homo nascitur ad laborem (5,7). Guardando gli Steak and Steel, confermiamo le parole di Wordsworth, citato da Oscar Wilde nel De Profundis: "La sofferenza è permanente, oscura e cupa / e ha la natura dell'infinità". Ma la stessa sofferenza mediata attraverso un'immagine sembra sempre più leggera ed effimera di quanto non lo sia in realtà. Nel cinema o nel video l'orrore è sempre disegnato da un progetto che vive e muore in una fiction. Tale limite ci è stato più volte raccontato da David Cronenberg, che nella sua carriera ha quasi sempre praticato i confini di quella poetica che si pone nel privilegio di sfondare gli schermi. Se Philip K. Dick ha narrato la disperazione dei corpi che, nell'odissea della metropoli simulata, si mostrano ai limiti del disegno letterario, Cronenberg ha riscritto fotogramma per fotogramma il disagio dell'uomo di fronte alla paura del suo stesso immaginario. Nella pittura di A.M., il tratto più caratteristico è il contributo proveniente da una storia anonima, che ci colpisce e ci scuote proprio perché appare giungerci da una zona oscura, da ombre enigmatiche e inquietanti di un racconto di dolore, che quando si mostra come evento diviene indomabile. La tecnica dello sfumato, che Matarazzo in Steak and Steel ha perfezionato, è sempre più vicina alle sue realizzazioni video. È come se i corpi della sofferenza e la tecnologia del dolore esalassero e contenessero nello schermo di The Fable, de Le cose Vere, Mi chiamo Sabino, Astrolite, La Camera Chiara, Warh, Miserere, A sua Immagine e Apice una pittura al limite del discorso fotografico e del discorso cinematografico. Artaudianamente, dunque, questa è un'immagine crudele, incattivita (non alla maniera della bad painting), perché modellata su un'astrazione che si prospetta gloriosa all'interno di una visionarietà tanto antica quanto moderna, tanto medioevale e gotica nei contenuti, quanto fumettistica e videografica nell'approccio analitico. Vivendo tutti i giorni nello schermo, noi non siamo più portati a far caso alle torture che rappresentiamo e di cui ci circondiamo. Nessun tratto della sofferenza rappresentata in Steak and Steel ci fa paura ed orrore, perché le protesi che indossano quei soggetti martoriati sono la trasposizione di quelle invisibili cinghie d'acciaio che ci legano la testa e che ci sezionano il corpo in maniera sottile, come le polveri dell'inquinamento. I conflitti che viviamo nel quotidiano sono subdolamente capillari e globali: i media nel quotidiano hanno trapiantato quegli antidoti che ci fanno accettare l'oppressione di un ignoto dolore. Noi siamo lontani da noi stessi, la nostra sofferenza è uno schermo, è un'immagine, essa si è trasposta nei lamenti e nelle grida della carne dei media, perché tra noi e la nostra natura c'è il difetto mediatico dell'indifferenza. Lo schermo ci ha oggettualizzati, ha congegnato la tecnologia della sofferenza, ci ha bagnati nella sua posizione come l'orafo bagna un qualsiasi metallo in un liquido d'argento a bassa risoluzione. Lo schermo ci ha trasformati in questo effetto metallo che, con piacevoli bulloni e inaspettati innesti, ci arriva al collo come una grande corona di salvezza. Adesso ce l'abbiamo fatta, siamo liberi di soffrire! 5. Assai lirico, intenso e definitivo rimane il film corto Miserere(12) del 2004. Devo confessare che guardandolo a distanza di un anno, dopo aver seguito le ansie dell'autore durante la preparazione del lavoro, esso mi appare come la ratifica finale di una ricerca sul patimento, sul dramma e sul dolore che A.M. persegue, in maniera assai originale, sin dall'inizio della sua attività. Miserere è un grido costante alla liberazione dall'oppressione gemila del male, in quanto sofferenza fisica, è una forma affilata di attenzione per quel teatro della vita che non rinuncia a scegliere tra il disagio di quelli che si sentono accompagnati solo dalle voci, dalle ombre e dalle storie dei disagiati. Forse senza nessuna forma di affettazione letteraria, il video si fonda sulla storia di tre incantevoli figure della "tecnologia del sofferto", intorno a cui ruotano le vicende di questo tentativo Sinfonico-Visivo. Difatti, la deposizione di realtà è scritta tra le stesse testimonianze dell'epilogo: Luigi è spastico dalla nascita, a cagione di uno shock post-parto. All'età di 10 anni, durante un intervento di trazione, al quale si sottoponeva regolarmente, gli hanno danneggiato definitivamente il cippo vertebrale. Ora ha 39 anni e vive a Napoli, dove si occupa di una comunità di Tossicodipendenti. Armando ha 56 anni. Tredici anni fa ha contratto un virus che gli ha divorato il midollo spinale, in seguito, a causa di un banale intervento chirurgico, ha perso le ghiandole genitali. La moglie dopo 34 anni di matrimonio lo ha messo alla porta incolpandolo di mancanza di virilità. Un giudice ha riconosciuto gli alimenti alla donna e al figlio di oltre 30 anni che consistono nei due terzi dell'intera pensione infortunistica di Armando. Dopo aver chiesto l'elemosina per circa 1 anno ed aver abitato nella propria automobile, ora Armando vive con 400 euro al mese ed è ospite in un basso di Secondigliano. Susy l'hanno paralizzata 13 anni fa mentre tornava da scuola, allora e sotto la propria abitazione, a Secondigliano, con un colpo di pistola alla schiena, durante un conflitto a fuoco... aveva 15 anni. Indicativamente la scrittura del film inizia da un'epigrafe tratta dal V Canto del Purgatorio di Dante: "E 'ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando 'Miserere' A verso a verso..." . Qui il Miserere, ineluttabilmente, si collega alle figure ed ai personaggi appartenenti alla galleria di A.M.; questa volta, però, l'autore ci risparmia il grottesco ed il paradossale in cui ci conduceva qualche anno fa il riferimento al film culto di Tod Browning. Congiuntamente, gli attori professionisti e dilettanti sprigionano un'apparizione concentrata, ma nel contempo straziante e straniante. Essi si fanno avanti come delle figure delicate, fantasiose e poetiche, atte a forzare la texture drammatica del video. Miserere ci convalida che le riprese di A.M. sono delle vere e proprie prospettive aperte nella fattispecie cinematografica. Nello specifico Miserere – pur non avendo niente di pop o di open source come Scorpio Rising di Kenneth Anger – è una testimonianza densa rimestata su di un doppio versante: il messaggio ermetico del muto e il cinema d'essai della neo-avanguardia. Il Miserere di A.M. è un panegirico dell'imprecazione, che proviene come tutto il suo lavoro dal mondo sensibile e simbolico della pittura e dell'allografia. Scavando in esso siamo stimolati ad allontanarci verso altri riferimenti storici, trasferendoci verso una sorta di rimando impressionistico/ espressionistico/ fauves: Georges Rouault, come anche le scritture del suo amico pittore parigino Léon Bloy, o ancora Joris-Karl Huysmans, autore di A Rebours. Rouault fu un grande artigiano e la sua attenzione è sempre andata ai diseredati, gli oppressi, i sofferenti, le prostitute, i clown, i saltimbanchi o le maschere della Commedia dell'arte. A.M. nel suo Miserere ribalta la lezione di Rouault! Egli senza ostentare nessuna traiettoria espressionistica, e disdegnando il facile aspetto deduttivo dell'equazione sofferenza-espressività, respinge le parole che Rouault – esprimendo il suo scetticismo per le teorie – ci aveva lasciato negli scritti del 1944: "In particolare ho orrore di quella negligenza del pensiero e dell'azione che sfocia in un idealismo umidiccio, appiccicoso e facile che rende gli angoli smussati e ogni disegno inconsistente, che accomoda tutto, spiega tutto. Per orrore di questo rammollimento, preferisco allora il cinismo, il realismo più comico o più violento"(13). Ad un secolo di distanza tale questione può essere considerata solo attraverso un ribaltamento della tradizione espressionistica. Infatti, per A.M. il realismo rimane, ma si tratta di un realismo mediale, digitale, visionario, cosciente del fatto che oggi la comicità sarebbe da imputare a chi vuole vedere nell'esasperazione dell'immagine sempre e comunque una componente psicotica. La violenza in A.M. non registra un'attenzione di culto, ma una consapevole ragione analitica che nell'attenzione scrupolosa che si confonde con la descrizione della realtà sollecita il violento, i segni furenti, le tracce dissociate di qualcosa di indeterminato. L'allievo di G. Moreau e il filosoficamente vicino a Jacques Maritain, dal 1917 al 1927, elaborò varie serie di stampe, tra cui la più famosa comprende i 58 fogli del Miserere. Tra queste acqueforti ed acquetinte, vi è una galleria di personaggi che si pongono e ci pongono domande, come il celebre Chi non si maschera? (tav. n. 8). Il tema era quello del dolore che scaturisce dalla guerra e dalla desolata condizione dell'uomo moderno. Nel Miserere di Rouault, si susseguono personaggi singolari e diversi: il cinese che ha inventato la polvere da sparo, coloro che si illudono di essere principi, i disturbati mentali, i condannati dalla vita e dalla società, gli avvocati che dovevano difenderli, gli oppressi, le madri sofferenti che piangono i loro figli dispersi. Inoltre, nonostante si è portati a credere che questa voglia di espressività di Rouault sia tutta manuale, tutta ricavata dall'artigianalità del pennello e del bulino, in realtà molti dei lavori grafici del celebre parigino sono fogli di grafica ottenuti con processi fotomeccanici e manualmente ripresi. Tale sfumatura tecnica dimostra che gli artisti che hanno trattato i temi del dolore si sono sempre occupati del passaggio tra sofferenza e tecnologia. A giusto titolo, quindi, anche l'opera di A.M. è un ibrido che risente di tutte le tecniche. Un artista mediale, per forza di cose, si trova di fronte ad una pratica incrociata, perché l'accavallamento e la sovrapposizione delle tecniche è insita nella sua stessa configurazione sociale. Allora, se il Miserere di Rouault è tradizionalemente cristiano-socialista, il Miserere di A.M. è post-tecnologico e post-Kantoriano con un leggero e sottile presagio cyber-archeologico. In effetti, è come se nelle sequenze di immagini del Miserere di A.M. rivedessi gli Ammessi in Scena di Leo De Berardinis e di Perla Peragallo del Teatro di Marigliano. Infatti, guardando i personaggi per me è facile avvertire che non manca una leggera evocazione della figura artaudiana di Sebastiano Devastato, di Luigi Finizio, di Nunzio Spiezia, Vincenzo Mazza, etc.. che si vedevano in King Lacrime Lear Napulitane (1973), Chianto è risate e risate è chiante (1974), Rusp Spers (1976), Sudd (1979)(14). In queste rappresentazioni storiche, le distorsioni e i giochi di variazione sulla voce e sulle parole dal dialetto passano all'idioletto. Nel Miserere l'esclamazione e il tono penetrante, insidioso, assordante e tragico di Canio Loguercio trasformano la partitura in una sorta di Elegia della disperazione. È come se A.M. con Miserere mi avesse rinnovato alcune suggestioni vissute grazie al Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller(15). I personaggi che scorrono sulla scena sono dei fotogrammi in movimento, che idealmente sembrano dipartirsi dalle fotografie di Maurizio Buscarino per Tadeusz Kantor(16). Un tempo tali suggestioni partivano dal fatto che in quel caso l'attore era il portatore della sua stessa forma di vita, che usciva da una quinta per sfidare il nulla dello spettacolo, passando da un sépare all'altro; qui in Miserere, nella scenografia di una Napoli sempre più al limite della catastrofe, i sei personaggi con un "verso a verso" (da un verso all'altro) – nello scenario di una post-fabbrica (l'Italsider) che si riverbera nella ritualità sofferente dei battenti a sangue di Guardia Sanframondi(17) – si proiettano in uno strano rituale senza sbocchi. Le parole che accompagnano le immagini parlano "di terra arsa e di domande sul perché del dolore, sulla condanna di essere stati inchiodati a sangue e di essere stati sconvolti, di essere stati spolpati e poi buttati come un torsolo, trafitti da uno spirito a filo di gas, a filo di dente, per una notte che sentiamo luccicante. Rispetto al vecchio urlo attivista dei '99 Posse (Curr curr guaglio' o'...) qui le voci rispondono con Stat' accuort guaglio... Nel Miserere, Napoli tira fuori ancora una volta la sua condizione di imprevedibilità, ciò che in alcune ma brevi autoesaltazioni si consumava nella facciata. Senza dover celebrare la classe morta, A.M. risponde allo stile del realismo psicotico con una cronaca annunciata di drammi silenziosi e sibillini, che scorrono nella galleria di quelle sofferenze che la nostra vita, la nostra esistenza non è in grado di bloccare, o di ridisegnare senza confondersi con la tensione quotidiana per la fabula. Insomma, qui non si tratta del Melodramma, non risuona il Miserere de Il Trovatore di Verdi, sarebbe troppo bello pensare alla pulizia delle musiche di Gregorio Allegri (composizione corale, 1638) o al Miserere (a quattro voci del 1733) di Antonio Lotti, ma siamo di fronte ad una sorta di teatro interiorizzato per piccoli schermi. Lo spettatore è invitato a riflettere sull'esistenza di chi quotidianamente è allenato a non avere un'esistenza, a non vivere la vita dei battenti a sangue, poiché per tirare avanti deve battersi su un male che non ha mai commesso e per il quale sono costretti a gridare Miserere! Questo strano caso di comunicazione video, in cui la lezione teatrale e il laboratorio di animazione sociale e drammatico fluisce sullo schermo, condensa il lavoro politico come una sorta di poétique de l'écran. (dal catalogo Steak&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005) NOTE: 1. Pensare sociologicamente (2001), traduzione di Luca Bifulco e Gianpaolo Iannicelli, Ipermedium Libri, 2003, p. 178. back 2. David Lyon, L'occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza ( 1994), Feltrinelli, Milano, 1997. back 3. La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di internet (1996), a cura di Bernardo Parrella, Milano, URRA Apogeo, 1997, p. XXI e 27. back 4. Bauman e May, op. cit., idem... back 5. Di cui parla appassionatamente e misticamente Pierre Levy. back 6. Qui mi permetto di segnalare in maniera provocatoria un mio saggio sull'argomento che ironizzava sul boom del Blog in rete, titolato Ecco... perché non ci guardiamo in faccia, ora in AA. VV., Media Comm..., a cura di Gabriele Perretta , Mimesis, Milano, 2004, pp. 65-71. back 7. Théorie de l'écran, pubblicato sul n. 2 della rivista online Traverses... www.cnac-gp.fr/traverses. back 8. A proposito si veda Espropriarsi e darsi, un altro mio testo sul lavoro di Matarazzo che parla di questo argomento in G. Perretta Edizioni d'Arte Parente, Benevento, 1997. back 9. Qui naturalmente sto pensando al suggestivo lavoro su La camera chiara dedicato a Roland Barthes. back 10. La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr.it. di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino, 1980, p. 119. back 11. Naturalmente, sin dall'inizio, ho suggerito il saggio di Lellouche, perché rimane abbastanza indicativo. Però, vorrei precisare che io stesso, sin dall'inizio degli anni '90, ho registrato all'interno della poetica del medialismo la questione degli assi schermatici, nel 1997 una sezione del Laboratorio Politico di Fine secolo, Edizioni dell'Ortica, Bologna, fu dedicato tra l'altro alla pittura schermatica. back 12. Tra gli interpreti del film troviamo Canio Loguercio, Aurora Staffa, Luigi Tufano, Armando del Sanctis, Susy Liguori, Massimo Borriello, Camy Reza, Barbara Matetich. Il Soggetto è di Matarazzo/Caravacci, le musiche originali sono di Fabrizio Castanìa e Canio Loguercio, il formato originale è in DV cam con inserti che evocano degli effetti tipo super 8, pronti a conferire un atmosfera di diradamento dell'imagerie. La durata è di 19'. back 13. Si riprende qui un passo di Soliloqui (1944), SEI, Torino, 1972 antologizzato poi in Mario De Micheli, Carte D'Artisti. Le Avanguardie. Lettere, confessioni e interviste, vol.2, Bruno Mondadori, Milano, 1995, p. 43. back 14. Cfr. la sezione su Leo e Perla in Franco Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia (Materiali I, 1960-76), Einaudi, Torino, 1977, pp. 243-300. back 15. Per confrontare la poetica di Neiwiller su Klee e il tempo si veda: Non ho tempo e serve tempo, L'Alfabeto Urbano, Napoli, 1988. back 16. Cfr. La Classe morta di T. Kantor. Scritti di T. Kantor, foto di M. Buscarino, Feltrinelli, Milano, 1981. back 17. Nel 1989, quando in arte non era di moda l'apologia della sofferenza e non c'era una grande considerazione del realismo psicotico, inserii nel catalogo della mostra Metessi alcune immagini dei battenti a sangue di Guardia Sanframondi. back "Gabbie", (video)mutazioni tra fantastique e realismo. [...] Nel panorama italico della videoarte, l'irpino Antonello Matarazzo rappresenta sicuramente uno dei personaggi emergenti. Già "scovato" e segnalato da Enrico Ghezzi, che tra l'altro appare nel suo mediometraggio Astrolite, l'eclettico artista avellinese (ha lavorato anche come costumista e aiuto-regista al Teatro Bellini di Catania) ha alternato la produzione di corti (ricordiamo tra gli altri The Fable, selezionato per il Bellaria Film Festival, in onda su "Fuori Orario" e prodotto da Rai 3), videospot (da menzionare un lavoro recente per la Converse) e lavori attribuibili in senso stretto al filone della videoart (da menzionare Warh, presentato al Torino Film Festival), all'uso di altri media: Matarazzo è infatti anche pittore, fotografo, autore di installazioni, fruendo di un metodo di ricerca che tende ad annullare le distanze tra i diversi media (Medialismo). Ha scritto di lui Enrico Ghezzi: "Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra rete di 'finestre' in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (Astrolite, suo e di Carlo Schirinzi), e quindi di diventarlo, ho avuto l'impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un'immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos'altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo. 'Faccio l'artista in provincia' mi disse quando lo chiamai al telefono dopo aver visto un suo video (lo presi subito per un festival). Come se avere il coraggio di dirsi artisti potesse non essere automaticamente 'provincia', magari fiorita ma con quel che di popoloso deserto che le appartiene, mentre la città, la civiltà urbana, è più un deserto ripopolato, popolato e disegnato a forza, campo di concentramento di fantasmi e movimenti e affetti che invece la provincia alberga contiene disperde con entropia più soffice e malinconica..." La Valle Caudina ha recentemente ospitato Gabbie, personale di Antonello Matarazzo ("'Gabbie' è una condizione del corpo, ma anche dello spirito...") articolata in due sessioni: la prima svoltasi a Montesarchio (Galleria Nuvole Arte Contemporanea), dedicata ad una serie di pitture dell'artista irpino e la seconda, tenutasi a Bucciano (presso l'ipertecnologica sede della Telenia), completamente incentrata su un programma retrospettivo di videoproiezioni: sono stati proposti in sequenza diversi lavori : La Camera Chiara (2003), Astrolite (2002), Warh (2003), Le Cose Vere (2001), Mi chiamo Sabino (2001), The Fable (2000), Apice (2004), Lovers (2004). Gabbie, proposta dall'Associazione Teorema e dalla galleria Nuvole Arte Contemporanea, con la media partnership dell'Associazione Culturale Caudina Interzona, è stata senza dubbio un'occasione importante per esplorare compiutamente l'universo dei lavori del videoartista irpino: dal moltiplicarsi frammentato di uno sguardo vitreo, punto focale per scrutare l'immutabilità della provincia meridionale al frantumarsi dell'esistenza quotidiana in mille rivoli di volti e nomi "risucchiati nel loro vecchio tempo", fino alle ansie, le inquietudini, la follia, l'irrealtà vissuta attraverso brandelli di storie fissate in una miriade di "gabbie" sospese nello spazio in posizioni assai disparate. Leandro Pisano (www.interzona.cc - novembre 2004) ) << |