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Matarazzo, quando il video diventa opera totale [...] Con il lavoro successivo Le cose vere (2001) il dialogo verso il linguaggio audiovisivo diventa più determinato ed operativo. Dal fotogramma fisso all'immagine-movimento, si potrebbe titolare questo passaggio. C'è cinema già a partire dalla storia. Un gruppo di amici vuole girare un film giallo, ma la "crisi" del cinefilo primo attore spingerà la troupe a realizzare una sorta di "film-reality" centrato sulle crisi emotive ed intellettuali del protagonista. Il video è anche un prezioso omaggio al cinema e gioca, quindi, sul sempre complesso piano del "metacinema". Logicamente restano tutti i temi che sappiamo esser dentro le pratiche visive di Antonello Matarazzo: la ripetizione come necessità esplorativa e potentemente creativa, gli scenari del suo territorio, la plasticità dei volti, le dimensioni dell'ossessività, le trasfigurazioni dal visionario al reale, i silenzi assordanti, "le cose vere" di una quotidianità che può essere vorace, fragilissima e disperata. [...] leggi tutto Alfonso Amendola (L'UNITA' - 06/02/05) Il posto qual è [...] ma ciò che colpisce e rimane nella memoria sono le 'inconclusioni', i détour, gli autismi delle macchine da presa, leggere o pesanti, forse pensanti: con Le cose vere Antonello Matarazzo passa dal montaggio di fotogrammi fissi di "The Fable" (anteprimaannozero 2000) alla fissità addosso a un personaggio, ossessionato dal cinema/non cinema fino a morirne, che parla di e cammina con la sua malattia, e intorno a lui, irrimediabilmente fuori di lui, Avellino coi caffè, i parchi, le feste popolari [...] Adelina Preziosi (SEGNOCINEMA - anno XXI N° 111, sett/ott 2001) Cinema delle alternative [...] In uno sguardo d'insieme, relativamente alle opere più spiccatamente di ricerca è emersa l'esigenza per un tipo di cinema che pur partendo dalla concretezza degli oggetti, dei luoghi, dei volti delle persone, cerchi però una sorta di trasfigurazione, che vada oltre la realtà dello sguardo, verso una destrutturazione percettiva del tempo e dello spazio. Tra i migliori in questo senso vanno menzionati: Le cose vere di Antonello Matarazzo [...] Loris Serafino (www.anteprimaannozero.org - sett. 2001) Matarazzo, un film sulle "Cose vere" Un cortocircuito logico ed estetico deflagra dall'interno la materia narrativa e la ricompone liricamente in Le cose vere, il secondo cortometraggio di Antonello Matarazzo, ideato e prodotto da Ciac, la neonata "Cooperativa Irpina di Autonomia Cinematografica", Matarazzo, artista avellinese con un background espositivo di tutto rispetto – si ricordino almeno le mostre i Meridionali e Freaks, sperimenta da oltre un anno, in linea con le più avanzate tendenze contemporanee, il passaggio dal linguaggio pittorico a quello filmico. Un passaggio graduale, si può senz'altro dire dopo la visione di questa seconda e riuscitissima prova che ha incontrato il favore critico di Enrico Ghezzi. In "The Fable", film d'esordio di Matarazzo, proiettato con successo ad Anteprimaannozero filmfestival, la rassegna curata dallo stesso Ghezzi al quale il video era piaciuto – 'anzi molto' come scrisse all'autore – il linguaggio pittorico era ancora dominante nei ritratti di gente comune che emergevano da un fondo scuro. Là il testo si riduceva ad una lunga didascalia onomastica, con il secco ed efficace andamento di un ufficio anagrafe andato in fiamme. Qui – in Le cose vere – il testo, pur marginale e scarnificato, è affidato alla frammentarietà di monologhi ed interviste che puntellano il fluire di immagini ai limiti di una paradossale, ariosa claustrofobia. In una filologica ambientazione avellinese, con tanto di uggia d'apres midi di provincia, in un asse che da Piazza Libertà arriva a Viale Italia, per sconfinare, di rado, in dintorni in cui Piazza Kennedy sembra già lontana, si muovono visionari e strampalati pochi personaggi. In apertura un'epigrafe-espediente narrativo che giustifica l'assenza di trama, recita più o meno così: doveva essere un giallo, ma la vittima a metà riprese, si è rifiutata di fare il film. Ecco, dunque la storia com'è, ma come non doveva essere. La negazione del film e la conseguente impossibilità del racconto, sono il viatico – strategico – per venti minuti di un viaggio placentare, nell'umida afasia di un luogo che è nostro, ma solo a patto della sua estraneità. Alcuni versi giovanili di Franco Arminio, co-soggettista e attore per Le cose vere, parlavano di un "pomeriggio amniotico" ed è probabilmente da lì che i liquidi genetici di questa non-storia derivano. Lo sguardo di Matarazzo sulle cose elimina le informazioni a colori, come il benemerito Final Cut di cui si è servito per una riscrittura estetica del materiale grezzo girato per mesi in città e provincia. Trampolieri sfocati accennano passi di legno sbilenchi in una Piazza Libertà colta in una dimensione atemporale. E Gigio Borriello, il nonprotagonista, galleggiando in un'inquadratura forza nove, in assoluta assenza di colori, evoca con le parole quelli usati visionariamente da Pasolini. Come a significare: il colore è detto, più di questo qui non si può fare. E dopo un boato che si trasforma in un terremoto visivo di immagini quotidiane, una voce continua a dire autisticamente: «C'è qualcosa nell'aria...». E dall'aria all'acqua, che scroscia sul vetro di un'auto in fuga, ritmicamente, sempre verso lo stesso paesaggio, curve di periferie irpine, campagne promesse, ma negate allo sguardo. E acqua, ancora, dal rubinetto, mentre lo stesso Matarazzo si mostra nel quotidiano e minimale gesto di lavarsi i denti. Dal bagno di casa, interno per eccellenza, la camera continua a muoversi in un esterno-città che si tramuta in un grande interno senza soluzione di continuità, con l'effetto di una camera barica per esistenze sottovuoto. Altro interno: Arminio sul letto, al telefono, denuncia la sparizione del protagonista: «Gigio se n'è andato...». E qua e là Borriello verrà poi recuperato mentre parla di un misterioso matrimonio in Senegal, al quale è stato, e di cui cerca di raccontare i colori, vera ossessione del suo autismo cinematografico. Intanto come contrappunto, testimone muto ed alter ego del non protagonista, pensoso e oscuro, compare – e scompare – un altro personaggio, mirabilmente interpretato, con inconsapevole fissità, da un inedito Martino Aurigemma. I suoi tratti singolarmente simili a quelli del protagonista, si confondono e sconfinano progressivamente nell'altro, con un ritmo straniante di inquadrature che mirano a sovrapporre i personaggi. Terza inquietante presenza quella monologante di Sabino Genovese che racconta dei suoi anni in manicomio e della sua malattia mentale, sorprendendo poi, con definizioni lapidarie: «...questa città è un alibi, un sotterfugio... non li vedi? (rivolgendosi ai passanti, ndr) ...camminano a quatto zampe». Il titolo del film è in una frase di Livio Borriello, che compare confondendosi con le sue parole sul video del portatile: «di notte verso le tre, se ti sei svegliato si materializzano le cose vere...». Avellino, vista da questa camera parkinsoniana e corrosiva, smette di essere un luogo geografico e diventa tutti i luoghi in cui è impossibile stare bene come è altrettanto impossibile stare definitivamente male. Dominante nella colonna sonora famosissime arie della Tosca, che talvolta lasciano il posto a qualche pezzo di Bob Dylan e alle musiche originali del compositore irpino Pasquale Innarella. Lieve ed intensa, angosciante quanto basta e sufficientemente lirica la visione di Le cose vere ti inghiotte come in un regresso della logica in cui, però, tutte le cose trovano un posto. Da questo set realissimo e senza colori esci con una sensazione di disagio: quella di sentirti in bianco e nero e ritrovarti, nonostante tutto, a colori. Natascia Festa (CORRIERE - 17/01/01) << |