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Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Specialistica in “Cinema, teatro e produzione multimediale” – Oltre il dolore, oltre la pena – Cinema e handicap, quattro diversi sguardi d’autore Relatore Prof.ssa: Alessandra Lischi Candidato: Sara Panattoni Anno Accademico 2005-2006 CAP I Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli CAP II A proposito di sentimenti di Daniele Segre CAP III Amleto...frammenti di Bruno Bigoni CAP IV Miserere (cantus) di Antonello Matarazzo [...] CAPITOLO IV Miserere (Cantus) di Antonello Matarazzo La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori (Alda Merini) IV.1. Introduzione Concludo la mia breve indagine sul rapporto tra cinema e handicap con l’analisi di Miserere, opera del pittore e videomaker Antonello Matarazzo. Del lavoro esistono due versioni: da quella più lunga, di circa venti minuti, realizzata nel 2004, è stato successivamente tratto il videoclip Miserere (Cantus), di soli otto minuti che, presentato nel 2005 all’Art Doc Fest di Palazzo Venezia a Roma, ha vinto il primo premio nella sezione “Nuovi Linguaggi”. Entrambi gli adattamenti hanno poi girato numerose rassegne nazionali ed internazionali, come la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il Mediterranean Film Festival di Montepellier e Invideo a Milano, riscuotendo giudizi favorevoli da parte di critica e pubblico. Il mio commento si concentra sull’adattamento più breve, è inutile dire che i riferimenti generali, circa la struttura del progetto, il rapporto tra l’autore e il tema della disabilità, l’idea che Matarazzo ha del video e l’uso che ne fa, non possono che riguardare ambedue le versioni. Ma che cos’è propriamente Miserere? Trovare definizioni adeguate per un prodotto creativo è, come abbiamo visto già per Amleto...frammenti, difficile e spesso infruttuoso, tanto più per un opera complessa e stratificata, come risulta essere quella di Antonello Matarazzo. Videoarte, video d’artista, video musicale, Bruno De Marino ha evidenziato come, insieme all’elemento sperimentale, siano combinati perfettamente anche quello narrativo e quello documentaristico(1). Miserere «è un video enigmatico come un sogno e con atmosfere da incubo...ci propone sequenze che sembrano uscite da un libro di magia o di fiabe, inquietanti e oniriche, attraggono e respingono lo spettatore attivando compassione e vari interrogativi»(2). Miserere è un coagulo suggestivo di elementi provenienti dai campi più disparati: nelle sue immagini risuonano e rivivono alcune significative esperienze della storia dell’arte occidentale, mescolate all’eco della “vistosa” tradizione popolare del sud Italia. D’altra parte il video, in generale, come «arte di attraversamenti e contatti»(3), si presta al dialogo con le diverse discipline dello scibile umano, vive «in completa promiscuità con le altre arti, con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali... »(4). Antonello Matarazzo ha saputo confrontarsi con la natura metamorfica dell’immagine elettronica: coniugando la sua formazione pittorica a una sensibilità squisitamente cinematografica per la composizione delle immagini, il ritmo e il montaggio, ha dimostrato una capacità considerevole nel manipolare il dato reale a fini espressivo-comunicativi. L’impatto sensoriale con questo grande affresco in movimento è talmente intenso da non permettere allo spettatore di tirarsi fuori e rimanere indifferente. Miserere, dunque, come esperienza partecipata. Esperienza prima di tutto dell’autore il quale, oltre ad un coinvolgimento profondo di natura intellettuale, è stato chiamato ad uno scontro concreto con la materia da raccontare. Per affrontare l’handicap dei protagonisti, Matarazzo ha voluto stabilire una connessione non solo cerebrale, ma anche “tattile”, con la diversità, ha voluto toccare la fisicità mutilata della vita, provando ad affrontare il mondo su una sedia a rotelle, riuscendo, in questo modo, a far combaciare il suo punto di vista con il loro. Miserere ha significato per lui non solo il raggiungimento di un traguardo importante nell’evoluzione del suo linguaggio audiovisivo, ma anche una crescita a livello umano e personale. Esperienza per noi spettatori, chiamati a confrontarci con una visione scomoda che ci rimanda difficili e faticosi interrogativi, obbligandoci a praticare quella che, pur essendo l’attività caratterizzante dell’uomo, il pensiero, troppo spesso, o per pigrizia, o per paura, ci dimentichiamo di possedere. Suggestioni, evocazioni, incanti, emergono dalla trama del video: il mio lavoro di analisi è consistito nel selezionare e riordinare questi stimoli, scegliendo di seguire i percorsi più attinenti al tema della mia ricerca. IV.2. Come nasce un’idea Il progetto, come ricorda lo stesso Matarazzo, è nato grazie alla determinazione di Luigi, Armando e Susy, dei disabili costretti per varie ragioni sulla sedia a rotelle. Dopo aver visto, durante un servizio della Rai, il ciclo di dipinti sulle malformazioni dell’artista avellinese, i tre hanno insistito per lavorare con lui, riuscendo a vincere le sue iniziali perplessità. Ciò che più frenava l’autore era il confronto con un tema così delicato come l’handicap e la paura nell’affrontarlo di inciampare nella retorica del dolore, o della denuncia sociale. Gli stessi “committenti”, d’altra parte, si sono mostrati da subito disinteressati a “reclamizzare” le problematiche legate alla disabilità motoria, motivo per cui, invece di scegliere per raccontarsi un regista prettamente documentaristico, sono stati attratti dalla dimensione lirica in cui Matarazzo colloca la “diversità”. La necessaria curiosità che spinge l’uomo all’arte, strada attraverso cui raggiungere una maggiore consapevolezza di sé e del mondo circostante, alla fine ha spinto l’autore a valutare la situazione. E siccome è uno di quelli che «per capire le malattie deve iniettarsi il virus»(5) ha voluto, prima di impegnarsi, incontrare più volte i diversamente abili, conoscerli e conoscere il loro disagio, provare le carrozzine ed imparare a muoversi con esse. Solo dopo questa generale ricognizione, che gli ha permesso di sentirsi parte di loro, ha accettato di dirigere l’avventura: a quel punto ha percepito che le barriere psicologiche tra lui e la disabilità erano cadute, la compassione era stata sostituita dalla risolutezza necessaria per dirigere l’handicap su un set, per gestire le barriere fisiche e architettoniche, senza l’imbarazzo di dover sempre chiedere scusa. Nella sua mente gradualmente il progetto ha preso corpo: si è fatta strada l’immagine di una processione di carrozzine in viaggio tra gli stabilimenti abbandonati dell’ex Italsider di Bagnoli e le pale eoliche di Lacedonia, in Irpinia. Per concretizzare tale idea è stato però decisivo l’incontro, del tutto casuale, con il musicista Canio Loguercio(6): assistendo ad un suo concerto Matarazzo è rimasto colpito non solo dalla performance musicale e canora dell’ex leader dei Little Italy, ma anche dalla particolarità del personaggio. Così, quando lo ha contattato per coinvolgerlo nell’evento, gli ha offerto non solo di curare le musiche del film, ma anche un ruolo da interprete. Loguercio, positivamente sorpreso dall’attinenza tra le intenzioni del videomaker e il brano che stava allora terminando, dal titolo Miserere, appunto, si è da subito mostrato entusiasta di unirsi alla compagnia. Luigi, Armando e Susy, Antonello Matarazzo e Canio Loguercio: Miserere è nato dall’incontro di queste personalità, così distanti tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia di mettersi in gioco, di riflettere su una realtà che l’uomo crede di poter piegare ai suoi bisogni, ma che si dimostra ad ogni istante fuggente. IV.3. L’handicap come specchio del mondo Il rischio del cinema, quando si pone dinnanzi a temi forti come il disagio fisico e mentale, è quello di cadere, anche se inavvertitamente, nella spettacolarizzazione del problema, enfatizzata dalla ricerca di un ampio successo di pubblico. Ci sono opere in cui l’emotività dello spettatore è sollecitata attraverso l’impatto visivo con situazioni insolite e deformi, altre che invece insistono sugli aspetti più melensi e commiserevoli per stimolarne le lacrime. Antonello Matarazzo critica e rifiuta entrambi questi atteggiamenti apprezzando, al contrario, l’approccio di quei registi «che spostano la macchina da presa dalla parte della realtà personale del disabile»(7). Film, anche importanti da un punto di vista commerciale, come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rain man, o Idioti(8), a suo avviso ignorano «il prevedibile e mieloso assioma del politicamente corretto e della solidarietà tout court e aiutano ad ampliare la nostra conoscenza attraverso la condivisione dei sentimenti dei protagonisti, buoni o cattivi che siano»(9). Non tralasciando di utilizzare, dove necessario, un linguaggio anche crudele e beffardo, mirano ad una comunicazione più ampia e completa con il pubblico, conducendolo verso una consapevolezza critica della questione. Senza puntare in ogni modo ad un coinvolgimento emozionale con gli “sfortunati” protagonisti, portano gli spettatori a prendere coscienza della loro umanità. Matarazzo ritiene invece che titoli come Freaks e Le chiavi di casa(10) strumentalizzino il disagio, utilizzando la sua maschera di lacerato dolore per impressionare. Amelio filtra la storia di Paolo attraverso uno sguardo di paternalistica commozione, mentre Tod Browning, nonostante la volontà di denunciare lo sfruttamento degli handicappati come fenomeni da baraccone, marca la mostruosità dei protagonisti per attirare l’attenzione del pubblico(11). Matarazzo ritiene che l’interesse non deve essere focalizzato sulla menomazione: i disabili sono uomini e donne comuni, condividono con ogni altro individuo sentimenti negativi e positivi, non si deve guardare loro attraverso concetti preconfezionati. Gli handicappati detestano, e il regista l’ha capito proprio durante l’esperienza di Miserere, qualsiasi atteggiamento di pietà che non scaturisca da una conoscenza diretta e da un reale sentimento di affetto. Detestano l’atteggiamento di chi li considera, prima di tutto, minorati: l’ingombro del deficit spesso nasconde la loro personalità, il bagaglio di emozioni che condividono con la globalità del genere umano. Matarazzo, come già accennato, non racconta Luigi, Armando e Susy per condurre un’indagine sociologica sul diverso, bensì i tre diventano il tramite per una rappresentazione astratta della condizione umana. L’artista avellinese tenta di trasformare i personaggi in icone: pur lasciandoli liberi di esprimersi, senza alcun tipo di forzatura attoriale, ne fa delle figure eteree, li isola dai loro contesti specifici, dalle difficoltà quotidiane che l’handicap amplifica, per dare l’immagine di una partecipata ansia di vivere. Matarazzo non indugia sui corpi che la “natura”, o il “fato”, ha reso immobili, sui volti di coloro che, come recita la dedica a chiusura del video, «non possono affermare con esattezza che dio esiste», con una attenzione documentaristica, ma con una «sensibilizzazione di natura estetico conoscitiva, l’approccio cambia a favore di un atteggiamento che ha a che vedere più con l’amore che con la ricerca»(12). Rappresentandoli, avvia un processo di conoscenza, ma non aspira ad un sapere analitico, descrittivo, bensì, proprio perché interviene l’amore, ad una esperienza sublimata. L’handicap affrontato nel video, la deformità, la mostruosità, attorno a cui ruota tanta della produzione artistica di Matarazzo, diventano un tramite verso la bellezza assoluta, misteriosa ed indecifrabile, che difficilmente si rivela e che coincide con quella terrena solo simbolicamente. Lo scopo è la comunicazione non l’astrazione di belle immagini, l’arte è concepita come mezzo per scavare dentro le coscienze. Il lavoro dell’artista avellinese può, in un primo momento, creare repulsione, ma una volta visto difficilmente lo si dimentica, funge da detonatore per attivare un processo cognitivo in chi lo fruisce. La dolorosa concretezza delle esistenze personali di Luigi, Armando e Susy, affiora solo nelle didascalie che chiudono la versione lunga di Miserere a testimoniare l’attenzione di Matarazzo per il teatro della vita. Punto di partenza irrinunciabile per l’artista è il dato reale, poi decontestualizzato nel tentativo di veicolare un messaggio più condiviso, di raggiungere un sentimento universale. «Luigi è spastico dalla nascita a causa di un trauma post parto. All’età di 10 anni durante un intervento di trazione al quale si sottoponeva periodicamente gli hanno danneggiato definitivamente la colonna vertebrale. Ora ha 39 anni e vive a Soccavo (Napoli) dove lavora in una comunità di tossicodipendenti». «Armando ha 56 anni. Tredici anni fa ha contratto un virus che gli ha divorato il midollo spinale. Successivamente ha perso i testicoli a causa di un banale intervento chirurgico. La moglie, dopo 34 anni di matrimonio, lo ha messo alla porta imputandogli mancanza di virilità. Un giudice ha riconosciuto gli alimenti alla donna e al figlio di oltre 30 anni che consistono nei due terzi dell’intera pensione infortunistica di Armando. Dopo aver chiesto l’elemosina per circa un anno ed aver abitato nella propria automobile ora Armando vive con 400 euro al mese ed è ospite in un basso di Secondigliano ». «Susy l’hanno paralizzata 13 anni fa mentre tornava da scuola, sotto la propria abitazione a Secondigliano, con un colpo di pistola alla schiena durante un conflitto a fuoco...aveva 15 anni. Vive a Secondigliano (Napoli) con la propria famiglia». Velocemente, con poche e lapidarie frasi, è riassunto l’incomprensibile tormento toccato in sorte a queste persone: la malasorte si è accanita testardamente su di loro, facendone un emblema dell’impotenza dell’uomo di fronte alla vita stessa, con i suoi inaspettati e ingovernabili accadimenti. I portatori di handicap, per la loro enigmaticità, sembrano avere attributi in più, e non in meno, per penetrare il segreto del mondo. La percezione che l’artista avellinese ha della deformazione trattiene in sé qualcosa di atavico: svincolandosi dall’approccio sociale, tipico punto di vista dal quale analizzare la diversità nell’età moderna, collocando l’handicappato in una visione trascendente, sembra collegarsi alle culture sciamaniche e primitive. In esse il “diverso”, al di là dell’apparente paura in quanto elemento di disordine, è messo in relazione con il mondo ultraterreno. Veggenti, stregoni, guaritori, sono spesso tramandati dalla tradizione con malformazioni fisiche: il dio della notte atzeco Tezcatlipoca ha una gamba e un piede solo, ma la stessa mitologia greca è ricca di creature mostruose come Fauni, Ciclopi e Minotauri, che popolano il vasto mondo intermedio tra gli uomini e le divinità, perfino, Priapo, dio della fecondità, è caratterizzato da una marcata anomalia fisica(13). Matarazzo attraverso Luigi, Armando e Susy delinea allegoricamente il ritratto globale di una problematica contemporaneità. L’handicap per scavare la complessità del reale, le sue contraddizioni, i lati oscuri e le zone incognite, senza pregiudizi, né condanne. Analizzare e rappresentare l’irregolarità umana, non per farne una beffarda caricatura da cui trarre un godimento perverso, ma per tentare delle risposte alle incognite della realtà, è stato l’atteggiamento di tanti artisti nel corso di secoli. Da Velazquez che ha ritratto i suoi nani con un’umanità pacatamente stoica, tramandandoli come osservatori incorruttibili del potere secolare del tempo: lo sguardo penetrante con cui li ha mirabilmente tratteggiati lascia intendere come dal loro regno intermedio, meglio di un “normale” cortigiano, essi considerino con occhio critico le convenzioni della società falsa e corrotta della Spagna del “Siglo de oro”(14). Alle fotografie di Diane Arbus che fissa sulla pellicola giganti, travestiti, ritardati mentali e disabili, con quello sguardo quieto e neutrale(15) che ha reso unici i suoi scatti. Senza amplificare e sottolineare la sofferenza, il dolore, l’infelicità, impliciti in certi contesti marginali, la fotografa americana ha voluto lasciare una traccia delle differenze del mondo contemporaneo, della sua ricchezza sfaccettata e dissonante. In questa lunga tradizione della rappresentazione del “brutto” si inserisce l’artista avellinese, che, prima con la pittura, poi con il video(16), si è dedicato ai temi della deformazione e del grottesco, che ha percepito nella limitazione della disabilità un mezzo potente per comunicare la realtà che ci appartiene: «Miserere si occupa di handicap solo in senso traslato, in verità c’è molto di autobiografico. L’handicap più grave è la nostra stessa condizione costretta in una circolarità ossessiva, senza sbocchi, che dà solo l’illusione dell’avanzamento»(17). L’estetizzazione della diversità in qualche modo forza l’assuefazione percettiva. L’emozione provocata dalla rappresentazione non può essere disgiunta dal piacere della riflessione, da un’esultanza del pensiero costretto ad attivarsi: lo spettatore non può sottrarsi da una partecipazione intellettuale, la straniante forza delle immagini non glielo consente. IV.4. Miserere IV. 4.1. Il canto «E ‘ntanto per la costa di traverso /venivan genti innanzi a noi un poco, /cantando ‘Miserere’ a verso a verso...»(18). La terzina dantesca esplicita magistralmente la sinossi del video di Antonello Matarazzo, che è il racconto di una preghiera rivolta alla divinità, affinché dia un senso alla sofferta condizione umana, liberando gli uomini dalla lenta ciclicità della vita e permettendo loro, attraverso un rito di espiazione, il raggiungimento di quel bene superiore che tutto ordina e spiega. Il Miserere è, nella liturgia cristiana, uno dei sette salmi penitenziali: esprime il pentimento e la trepida invocazione della misericordia divina. Composto secondo la tradizione da Davide, per chiedere perdono a dio delle sue colpe(19), simboleggia la supplica dell’uomo ad essere accettato con comprensione per quello che è: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato»(20). La colpa da espiare è connessa alla stessa natura dei mortali: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre»(21). Il peccato è qualcosa che appartiene all’uomo in quanto tale e il Miserere sembra ammettere, con rammarico, la consapevolezza dell’inevitabile ambivalenza dell’agire umano. Nel salmo si prende coscienza della limitatezza degli uomini che dovrebbero avere una meta e un obiettivo da raggiungere, mentre invece si perdono per la strada, cadono e falliscono la loro vocazione, la loro chiamata. Anche il Miserere di Canio Loguercio è una supplica appassionata, verace, come la lingua, il napoletano, nella quale è scritto: è «una sorta di elegia della disperazione»(22), per dirlo con le parole del teorico Gabriele Perretta, condotta dall’autore, e dai bravissimi Maria Pia De Vito e Pasquale Trivigno, con un tono penetrante, insidioso, assordante e tragico, che coinvolge e strazia chi lo ascolta. Nella composizione di Loguercio rimane il senso di smarrimento che caratterizza i presunti versi di Davide, «Insegnerò agli erranti le tue vie/e i peccatori a te ritorneranno»(23), ma cade ogni riferimento alla condotta peccaminosa dell’uomo. La sofferenza umana sembra non avere ragioni, ma appartenere, per natura, al suo genere. Alla base dell’angoscia dell’uomo c’è l’inspiegabilità del tormento cui quotidianamente è sottoposto, spesso non imputabile a colpe precise, né cancellabile con un comportamento di cristiana rettitudine, con una vita dedicata a Dio, ma legato a quel senso di impotenza che si manifesta dinnanzi alla vita stessa. Le parole del musicista lucano non fanno riferimento a macchie da lavare, si interrogano, al contrario, sulla condizione di incapacità che è toccata all’uomo, in balia di «sto maletiempo che ce strapazza ‘e nierve, passa e nun si ferma mai. A notte e ‘o juorno...e nun ‘o assiente, se nfizz’ a sotto ‘o verme zitto e nun more maje»(24). Il canto di Loguercio esplicita un sentimento di arcaica religiosità tipico del cattolicesimo meridionale che, seppur ridimensionato, sopravvive tutt’oggi: innanzi alla straordinaria potenza del negativo nella vita di ogni giorno, ci si abbandona, al di là di ogni tentativo di razionale miglioramento, a quella che Ernesto De Martino definisce «una protezione psicologica»(25) da parte del divino. «La precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili...l’asprezza della fatica... insieme ad un’accentuata labilità della presenza individuale»(26) sono affrontate con un atteggiamento di magica devozione. Così, come l’origine delle disgrazie che si abbattono sull’uomo è attribuita all’intervento malevolo di un’entità superiore, anche la loro risoluzione deve necessariamente passare attraverso la mediazione del divino. L’uomo è imprigionato in una realtà che non riesce a controllare, è agitato da dubbi, interrogativi, cui non sa rispondere, l’unica possibilità per alleviare il suo dolore è la fede in un principio regolatore che non è possibile verificare, ma verso il quale dimostrare un amore incondizionato. Nelle frasi del musicista lucano ricorrono parole e termini tipici di molte formule rituali connesse a cerimonie propiziatorie, o di guarigione: si parla di malasorte, freve, maleviento, tornano elementi naturali, spesso appartenenti alla sfera alimentare, come il sale, l’ “ove”, “fronne ‘e limoni”. Gli uomini non potendo servirsi della ragione per emancipare la loro condizione, non si arrendono, ma si aggrappano alla fede cieca in un essere superiore che li faccia sentire meno soli ed inutili: si addossano colpe non compiute nei suoi confronti, invocano la sua pietà, incrementando la forza del loro canto attraverso cerimonie e funzioni penitenziali. Percorrendo le strade dell’intelletto l’uomo non raggiunge certezze circa il senso profondo dell’esistenza. La precarietà della sua posizione lo fa sprofondare in uno stato di doloroso turbamento, dal quale cerca di liberarsi attraverso la creazione di un’entità astratta che nella sua inverificabile immaterialità fonda il proprio potere consolatorio. IV.4.2. Il video Il video di Antonello Matarazzo testimonia proprio questo lungo percorso di liberazione, di una libertà tentata, ma forse impossibile da raggiungere. L’espiazione intonata da Loguercio è praticata da un gruppo di sei disabili(27) che, per quanto è loro concesso, tentano il cammino di un’emancipazione, sotto la guida di una misteriosa figura, cieca e claudicante (impersonata dallo stesso cantautore). Dell’opera esistono, come già specificato, due versioni: quella più lunga si è servita per la colonna sonora, oltre che del contributo di Canio Loguercio, della collaborazione del compositore Fabrizio Castanìa, con l’aggiunta di pezzi del repertorio della canzone napoletana; l’altra invece è stata concepita come clip dell’omonimo brano Miserere dell’interprete lucano. Il materiale filmato alla base dei due lavori è il medesimo. Si possono individuare tre blocchi principali di immagini, rispettivamente riferiti: al tragitto compiuto dallo “zoppo” per raggiungere il gruppo di disabili, alla trepida attesa di questi ultimi all’interno degli stabilimenti dell’ex polo industriale di Bagnoli ed infine, avvenuto il congiungimento tra la guida e i penitenti, alla funzione cerimoniale, condotta prima all’interno dei capannoni dismessi, poi tra le pale eoliche della campagna irpinica. L’esperienza dei protagonisti è inoltre messa più volte in relazione con le immagini del rituale processionale, altrettanto affascinante e coinvolgente, dei battenti di Guardia Sanframondi (BN). Mentre il Cantus si struttura principalmente attorno al momento della penitenza, nella versione originale di Miserere sono dilatati i tempi dell’attesa. Più della metà dell’intera durata del video mostra i disabili che aspettano, aggirandosi ansiosi per i capannoni deserti, l’arrivo dell’uomo con il bastone, solo negli ultimi minuti i protagonisti si incontrano dando inizio al rituale (il brano di Logurercio non è riportato nella sua interezza, se ne ripercorrono pochi versi). Per quanto mi riguarda ho scelto di dedicarmi con maggiore attenzione al videoclip per due ragioni. Una di natura pratica: Miserere (Cantus) è stata la versione dell’opera di Matarazzo che ho visto per prima, in base a questa ho scelto di inserire il lavoro dell’artista campano nel mio progetto di ricerca. L’altra, potrei dire, di natura più estetica, dal momento che sono rimasta sorpresa dall’abilità con cui l’artista ha saputo mediare tra una forma, comunemente commerciale, come il videoclip e un messaggio così alto, come quello sotteso a Miserere. È piacevole e consolatorio verificare la possibilità di una commistione intelligente tra i diversi livelli della cultura: il medium “basso” del clip, simbolo per eccellenza della patrimonio giovanile dagli anni Ottanta in poi, usato per cercare una risposta al quid della vita. Uno degli strumenti preferiti dall’industria dell’intrattenimento per anestetizzare le coscienze delle masse, incanalandole verso tendenze e mode preconfezionate, viene qui utilizzato per far riscoprire all’uomo la sua natura di essere pensante: provocando un’intensa attività intellettuale, Matarazzo allontana la condizione di pigra passività richiesta allo spettatore contemporaneo, in primis dalla televisione, ma sempre più spesso anche dal cinema. L’abilità comunicativa dell’autore avellinese è certamente rafforzata dalla sue capacità tecniche: la bravura nel comporre le immagini partendo dal taglio di ogni singola inquadratura, la sensibilità naturale per il ritmo e il montaggio, che raggiungono un traguardo straordinario proprio in Miserere, dove le immagini si adattano, senza la minima forzatura, all’andatura ora incalzante, ora “strascinata”, del tessuto sonoro, concorrono ad organizzare un materiale di forte impatto visivo, davanti al quale neanche il frequentatore abituale del grande supermercato della Tv può rimanere indifferente. IV.4.3. L’uomo e il paesaggio Centrale in Miserere è il rapporto uomo-paesaggio. Matarazzo investe l’ambiente di una forte valenza simbolica: diviene, al pari dei corpi che lo percorrono, delle anime che cercano di viverlo, protagonista delle immagini. L’artista avellinese spesso ripercorre nei video i luoghi familiari della sua terra d’origine, l’Irpinia: in questo casoè la campagna attorno a Lacedonia, sormontata dalle imponenti pale eoliche, a fare da sfondo (insieme agli stabilimenti dismessi dell’ex Italsider di Bagnoli) ai movimenti dei personaggi. Tuttavia, pur partendo dalla concretezza dei luoghi e degli oggetti, l’autore punta ad una loro trasfigurazione, si spinge oltre la realtà dello sguardo, verso una destrutturazione percettiva del tempo e dello spazio. Il paesaggio naturale, l’archeologia industriale, luoghi che richiamano situazioni e contesti specifici, spogliati dei loro contenuti oggettivi, assumono significati astratti e metaforici(28). La condizione di impotenza dell’uomo dinnanzi all’aggressività della vita passa attraverso l’handicap dei protagonisti: l’ampiezza della loro costrizione (obbligati a muoversi attraverso un’appendice meccanica, sono limitati, non solo a livello psicologico, ma anche nei più elementari esercizi motori) moltiplica l’angoscia. La fragilità dell’agire umano è condensata nell’immagine ingombrante delle carrozzine che, spesso riprese dal basso, a distanza molto ravvicinata, incombono sulla scena, relegando la persona in secondo piano. Esplicitano, in questo modo, la natura deficitaria dell’essere umano, la sua inettitudine dinnanzi all’incontrollabile, e misteriosa, forza della natura. Inettitudine testimoniata proprio dal paesaggio archeologico-industriale. Le strutture abbandonate, arrugginite e decadenti, dell’ex acciaieria, sono gli spettrali relitti del tentativo dell’uomo di regolare e sottomettere, secondo le proprie esigenze, la realtà circostante. L’uomo ha cercato di acquisire una posizione di forza nei confronti di un mondo che, per lui incomprensibile nelle sue dinamiche più profonde, è fonte di angoscia e paura, ma si è ritrovato al punto di partenza. Né inferno, né paradiso, ma un limbo di disperazione cui si è destinati per ignoranza, per la mancanza di risposte circa la propria collocazione. La scelta di ritrarre i protagonisti attraverso inquadrature fisse, dove l’unica cosa in movimento è il vento, quel «maleviento»(29) cantato da Loguercio, trasmette magistralmente lo smarrimento dell’uomo davanti al mistero della vita, il suo essere in balia di forze che, esterne a lui, non può prevedere, né risolvere. Nonostante ciò, con sofferente caparbietà, gli esseri umani non si arrendono cercano una via di uscita da quelle gabbie che loro stessi hanno contribuito a creare. Guardando oltre le barriere architettoniche, il loro sguardo si perde all’orizzonte, nell’attesa di un salvatore che tarda ad arrivare. L’uomo come un moderno Dedalo è impegnato a fuggire dal labirinto che la sua intelligenza ha partorito, senza avere a sua disposizione più neanche quell’ingegno che permise al lontano antenato la salvezza. La ragione ha fallito, sembra essere definitivamente sconfitta, si è dimostrata troppo debole per trovare risposte all’inquietudine esistenziale del genere umano, inadatta a proteggerlo da forze naturali incommensurabili. Gli spazi vuoti dell’Italsider si ergono a simbolo della nostra vita di abbandono e solitudine, dello stato di incomunicabilità in cui gli uomini sono caduti. La comunicazione, privata delle parole, viene tentata dai personaggi con un intreccio di gesti, affascinanti, ma incomprensibili. Lo sguardo sembra essere rimasto l’unico elemento di dialogo: sguardo malinconico, ma al contempo fiero, quello con cui Luigi, Armando e Susy, puntano la telecamera invitando gli spettatori a partecipare di un dolore che è anche loro. L’uomo quindi incapace di raggiungere attraverso l’intelletto un proprio equilibrio, si abbandona alla consolazione di una primitiva e magica religiosità. Solo l’adesione incondizionata al divino sembra regolare l’incontrollabile flusso della vita: dio esiste grazie alla fede, non necessita di prove tangibili per affermarsi, esiste nella misura in cui si crede che esista, tutto ciò che razionalmente non si può comprendere viene ricollegato alla sua volontà. Carichi di aspettative i disabili lo attendono, affinché li smuova dalla loro passività, dalla castrante ciclicità del vivere quotidiano che solo apparentemente avanza in una direzione, ma che in realtà si ripete ossessivamente nel suo scorrere verso il nulla. Il salvatore che si prospetta loro davanti risponde agli attributi divini dell’enigmaticità e del mistero: non parla con le anime da redimere, non spiega loro cosa fare, ma attraverso il suo agire mostra la via della possibile redenzione. Il dio di Miserere è un dio cieco e storpio, cammina per mezzo di un bastone, il deficit è forse da ricollegarsi, anche in virtù di quanto già affermato, al suo ruolo di mediatore tra due mondi lontani(30), ma l’irregolarità fisica potrebbe anche essere la spia del fallimento dello stesso percorso espiatorio che è stato chiamato a dirigere. D’altra parte Matarazzo svela, sin dall’inizio, la fragilità di quest’essere così simile a quella delle anime che deve salvare: la prima immagine che ce lo propone lo ritrae in cammino ai piedi di due grandi gru metalliche che ne sovrastano la figura, facendo intuire la debolezza del suo intervento. I disabili tuttavia sembrano non possedere altra via d’uscita se non quella di affidarsi allo storpio: simulano i suoi gesti rituali e senza indecisione lo seguono. Partecipano ad una processione che, al pari di quella dei battenti di Sanframondi, dovrebbe servire alla loro liberazione, ma che in realtà si dimostra inutile e priva di significato. Il pellegrinaggio di questa armata di miserabili, di «bavuse e pupatelle»(31), è verso un territorio che, in apparenza ampio, aperto, si rivela, come il precedente, costrittivo. Un territorio, quello della campagna irpinica, che si palesa sempre uguale a se stesso: i protagonisti salgono, scendono, per strade che sembrano perdersi all’infinito, ma che in realtà non portano a niente. Il loro è un moto che si compie su se stesso: smarriti, persi, procedono senza meta, sono costretti alla ripetitività inarrestabile della vita, sottolineata visivamente dalla presenza incombente delle pale eoliche. La divinità non è riuscita ha risolvere il loro disagio, si arrende, fallisce la missione che era stata chiamata a compiere e abbandona il suo ruolo di guida. Alla fine del video è l’uomo con il bastone a seguire la processione di carrozzine. Il pessimismo è avvolgente: le immagini ci mostrano, inappellabili, come una vera fuga non sia possibile. Tuttavia, una nota di ottimismo l’artista, alla fine, sembra concederla: risiede nella figura della bimba che apre e chiude il video. In particolare l’immagine finale nella quale, attraverso un effetto di morphing, si attua la trasformazione dell’uomo (Loguercio) nella bambina(32), rappresenta il ritorno alla purezza dell’età primigenia. L’epoca in cui la ragione sembrava invincibile e l’uomo pareva poter dominare il mondo è finita, ma ad esso rimangono comunque le sue capacità intellettuali. L’ingegno del quale l’essere umano deve riappropriarsi è l’intelligenza spontanea dei bambini, la loro vitale curiosità che spinge ad interrogarsi sulle cose anche più semplici e banali. La salvezza è il ritorno all’infanzia, età durante la quale, non avendo certezza su nulla, si è spronati a chiedersi il perché di ogni cosa. L’infanzia è purezza, ma non innocenza, quest’ultima afferma Matarazzo è possibile solo nell’immobilità, ma l’immobilità è castrante, mentre i bambini sprigionano un vitale dinamismo. La salvezza risiede nella nostra capacità di pensare, di affrontare l’ambiguità della vita con un attivo spirito critico, senza preconcetti e pregiudizi. La bambina non ha paura di toccare la rana, nella saggezza popolare simbolo della bruttezza (sovente si dice “sei brutto come un rospo”), qui associata alla imperfezione degli handicappati, perché in lei c’è il desiderio di apprendere la diversità, di gustare la ricchezza multiforme della vita. L’uomo sembra dire Matarazzo ha pensato, ad un certo punto della storia, di avere gli strumenti per determinare e decidere ogni cosa, ma questo si è dimostrato impossibile, allora si è sentito sconfitto e si è rifugiato in una rassicurante indifferenza: prima ha peccato di presunzione, poi si è arreso ai propri limiti, senza comprendere la forza che ha a disposizione, il pensiero, un pensiero umile che si fa giorno per giorno. IV.5. Matarazzo e il video IV.5.1. La natura pittorica dell’immagine elettronica L’uso del video, anche se avvenuto, Matarazzo ci tiene a ricordarlo, per pura casualità(33), è a mio avviso un approdo naturale per un autore che, esponente di quel Medialismo teorizzato da Gabriele Perretta alla fine degli anni Ottanta, aspira all’abbattimento dei confini tra i vari media, tra province estetiche e formali diverse(34). Il video dunque come mezzo che, lungi dall’aver decretato la fine della sua ricerca pittorica, è servito a rinnovare il linguaggio dell’artista avellinese e ad arricchire le sue possibilità espressive. La tecnologia ha restituito vigore e, paradossalmente, naturalismo alla sua arte, permettendogli di «non arenarsi nelle secche del concettualismo»(35). Sin dall’avvento del cinematografo il rapporto tra pittura ed immagini in movimento è stato uno dei nodi del dibattito che si è sviluppato attorno alla settima arte. Sia coloro che percepivano il nuovo mezzo come temibile minaccia nei confronti della tradizione artistica, sia quelli che ne sottolineavano le potenzialità comunicative e linguistiche, erano concordi nel riconoscere l’esistenza di strette relazioni tra le arti figurative, in generale, e il cinema(36). Relazioni che si sono intensificate con l’avvento dell’elettronica la quale ha consentito un avvicinamento ulteriore tra immagine filmica e immagine pittorica. Secondo Antonio Costa «questo accade non tanto perché l’elettronica sia in grado di simulare i procedimenti della pittura...piuttosto perché l’immagine elettronica produce uno spazio strutturalmente analogo a quello della pittura, uno spazio strutturalmente progettato e prodotto»(37). Quello che accomuna l’immagine di sintesi alla pittura, soprattutto a quella post-impressionista, è la possibilità di «un controllo punto per punto»(38) della raffigurazione, con un’esattezza progettuale molto elevata nella prima, che ha l’opportunità di creare e controllare forme in movimento. C’è una profonda affinità tra l’agire del pittore e quello del videomaker: entrambi sono in grado di stabilire con l’opera un rapporto immediato e dinamico. Innanzi alla materia filmata l’autore ha la stessa libertà che detiene davanti alla tela: può modificare la sostanza quando e come vuole, potendo verificare, nell’immediato, il risultato del suo intervento. «L’immagine elettronica, analogica e digitale, consente di creare e manipolare, non solo offrendo “in diretta” una libertà di fare e disfare, ma anche permettendo di sviluppare linguaggi tra i più diversi»(39). La tecnologia fornisce all’artista, soprattutto in fase di postproduzione, un’ampia scelta di soluzioni e strumenti con cui plasmare, a proprio piacimento, il materiale visivo. L’autore ha possibilità, quasi illimitate, di intervenire sul colore, può servirsi di varie tecniche di scomposizione dell’immagine per moltiplicare i punti di vista, dispone di una vasta gamma di effetti con cui trattare, in senso astratto e antinaturalistico, il dato reale. «Il mixer video rivela ed esalta quella che è una delle potenzialità più intrinseche dell’immagine elettronica: la sua disponibilità alla metamorfosi. Del resto l’immagine video, instabile, fluida e magmatica, è già il risultato di una serie di mutazioni energetiche, perciò la trasformazione non può che essere una delle sue proprietà più naturali. Sperimentare la metamorfosi, attuare le mutazioni dell’immagine, non rappresenta quindi una forzatura, ma il naturale dispiegarsi delle potenzialità innate del video»(40). Matarazzo, come già prima di lui una lunga schiera di pittori, ha sfruttato le possibilità connesse alla natura stessa dell’immagine elettronica, per dare una scossa alla propria azione creativa. Il confronto con il video ha vivificato il suo approccio con la realtà che rischiava di appiattirsi in formule ripetute e ripetitive, soprattutto lo ha portato ad attivare un’esperienza paesaggistica assente dai cicli pittorici, dove l’attenzione si concentra sulla figura umana, proponendo corpi e volti decontestualizzati e privati di un qualsiasi contatto con l’ambiente. Il paesaggio nei video di Matarazzo è tornato, come abbiamo già potuto verificare, ad essere un elemento centrale della rappresentazione: segno, simbolo, imprescindibile, del racconto filmico. Il medium elettronico, per le sue caratteristiche intrinseche, ti costringe a guardare il mondo, a fare i conti con la luce, con lo spazio e ovviamente con il colore. Video e pittura, sviluppati a partire dalle medesime esigenze, dunque convivono in un rapporto dialettico e di vicendevole scambio: contaminandosi e amalgamandosi reciprocamente, hanno incrementato le potenzialità comunicative dell’agire di Antonello Matarazzo. Da una parte le sue tele hanno risentito del realismo marcato che è possibile ottenere tramite la registrazione elettronica della realtà, viceversa i suoi film risentono di una evidente sensibilità pittorica. Miserere, nello specifico, appare come un insieme di grandi tele. Ogni inquadratura è curata nel minimo dettaglio alla ricerca di una fascinazione visiva che stimoli un coinvolgimento emotivo nello spettatore. Risentendo della sua formazione di pittore, l’artista ha prestato attenzione ai particolari dei singoli quadri, prima attraverso l’organizzazione della scena, poi con un intenso lavoro di postproduzione che è andato ad incidere sul colore, sulla consistenza e sulla stratificazione delle immagini. In fase di ripresa Matarazzo ha curato attentamente la plasticità della composizione visiva, niente nell’organizzazione della situazione da filmare è stato lasciato al caso: la collocazione dei personaggi, la gestualità e la mimica dei corpi, gli attributi della loro rappresentazione, sono tutti elementi che concorrono all’efficacia del messaggio che l’artista vuole trasmettere con il suo lavoro. La comunicazione è ulteriormente accentuata dagli interventi al mixer video, attraverso distorsioni ed effetti speciali, di vario tipo è stata ottenuta una materia di forte impatto visivo ed emotivo. L’artista campano, d’altra parte, coglie la differenza tra un pittore che si dedica a video artistici, come lui, e un regista che parte direttamente dalla telecamera, proprio nel rapporto di intimità che il primo riesce a instaurare con ogni singolo frame. Il regista “tradizionale” presta una maggiore attenzione alla globalità dell’opera, essenziale per lui è il “percorso” narrativo, nel secondo c’è invece l’intento di una ricerca estetica minuziosa ed elaborata. In Miserere non c’è fotogramma lasciato allo stato grezzo, tutto è trasformato, deformato, dall’intenso lavoro a posteriori, c’è la ricerca di uno shock percettivo con cui investire lo spettatore che dinnanzi al flusso composito e articolato delle immagini si trova, alla stregua dei protagonisti, in balia di un qualcosa che non riesce a controllare razionalmente. Le immagini ammaliano, chi le guarda subisce uno straniamento, è conturbato: l’esasperazione della rappresentazione per documentare la contraddittorietà, l’incoerenza, dei tempi che viviamo. Le continue sovrimpressioni, le transizioni prolungate tra una sequenza e l’altra, utilizzate durante tutto il video, non appaiono mai fredde esercitazioni tecniche fini a se stesse, ma servono ad esprimere la percezione che Matarazzo ha della realtà, lui crede che «in tutte le cose ci sia doppiezza ed enigmaticità, qualcosa di sublime ed inaccessibile: tutto è vicino e straordinariamente lontano allo stesso tempo»(41) IV.5.2. I debiti con la tradizione La pittura costituisce per Antonello Matarazzo un polo di riferimento importante anche sul piano iconografico: in Miserere sono molti gli elementi che, attinti dalla tradizione figurativa, l’artista filtra attraverso il proprio sguardo e riutilizza per la costruzione di un personale sistema di simboli. Interrogato a proposito, pur assicurando l’involontarietà del citazionismo, Matarazzo ammette l’obbligo di certi paragoni: riconosce la presenza di rimandi, piuttosto espliciti, anche se inconsapevoli, a storie e memorie d’arte sedimentate, ricollegando ciò alla natura stessa del prodotto artistico che, a suo avviso, «non può non risentire dell’insieme di suggestioni che abbiamo capitalizzato con tutti i nostri sensi»(42). Suggestioni che, una volta individuate, non possono non condizionare anche il sentire dello spettatore. Il mio sguardo ha registrato, in particolare, una corrispondenza marcata, pregnante a livello visivo, ma che ha poi verificato un riscontro anche sul piano del significato, con l’opera di due grandi del secolo scorso: René Magritte e Francis Bacon. Per quanto riguarda la sfera formale l’influenza di Magritte, al di là degli immediati e oggettivi riferimenti, come la bombetta indossata da Luigi(43), coinvolge soprattutto l’esperienza paesaggistica, con il cielo che, principalmente nelle immagini esterne all’ex zona industriale, richiama quello del pittore belga: come il suo occupa la metà abbondante dell’inquadratura-tela ed è caratterizzato da nuvole grandi, ma non minacciose, che appaiono soffici e placide, anche se di una calma spesso inquietante. I richiami si spingono oltre, diventano vera e propria citazione: il piano sequenza dello “zoppo” che cammina di profilo sul molo, il cui corpo funge da finestra sul paesaggio dell’inquadratura precedente, riconduce al famoso quadro Decalcomania (e in generale alle numerose tele che propongono le sagome dei personaggi riempite delle immagini della natura). Gli elementi, invece, dello stile di Francis Bacon cui il video rimanda sono principalmente due: da un lato i muri chiusi, le gabbie di vetro, le tende, le strisce della tappezzeria, le sbarre, che imprigionano i personaggi del pittore irlandese, trovano un corrispettivo nelle strutture ferrose, nei capannoni arrugginiti dell’ex zona industriale, ma anche nelle carrozzine, tutti elementi artificiali che limitano le possibilità di movimento dei personaggi; dall’altro nell’opera dell’artista avellinese si riscontra quel medesimo turbamento che il critico Luigi Carlucci, analizzando la pittura di Bacon, lo percepisce «provocato dalla distorsione e talvolta dalla contaminazione profonda delle immagini.»(44). In entrambi c’è un progressivo annullamento dei lineamenti dei soggetti: nel video, tramite la lentezza dei passaggi da un’inquadratura all’altra e le continue sovrapposizioni, le immagini si cancellano le une nelle altre, perdendo gradualmente di consistenza e richiamando la labilità dei tratti del pittore. Riferimenti che affiorano dall’immaginario culturale di Antonello Matarazzo. Tuttavia le impressioni non si limitano al solo segno: esaminando più da vicino la poetica, le istanze di significato che soggiacciono alla opere dei due grandi maestri, è possibile individuare dei legami più profondi tra essi e l’artista campano. La ragione della pittura di René Magritte è l’esistenza dell’uomo e l’interrogativo che essa genera, circa il senso della vita e della morte. Louis Scutenaire a questo proposito, parlando dell’amico, afferma: «Grazie a Magritte la pittura rinuncia al suo compito di intrattenitrice dell’occhio di eccitante o di sfogo sentimentale per cominciare ad aiutare l’uomo a trovare se stesso, a trovare il mondo»40. Non è forse il medesimo principio che muove Matarazzo, il quale, raccontando Luigi, Susy e Armando, vuole cercare di rispondere agli interrogativi che lo assillano come uomo? Vuole rintracciare il senso, se mai uno ce ne è, della vita, il suo significato più profondo. Magritte cerca di raggiungere lo scopo generando «un clima poetico destinato a spaesarci, a sprofondarci nello smarrimento e a farci rasentare il mistero fonte di ogni conoscenza»(45), anche Matarazzo forza l’assuefazione percettiva, avvicinandosi ad un sapere più consapevole e completo. Lo straniamento che rivela il mistero della realtà, ed è quindi fonte di conoscenza, si concretizza, però, percorrendo strade diverse: nell’opera dell’artista belga, si manifesta attraverso le immagini degli elementi semplici del quotidiano, trattati in maniera molto naturalistica, ma presentati in accostamenti insoliti ed imprevedibili: «poiché - egli dice - , ciò che il mondo offre di visibile è sufficientemente ricco per costruire un linguaggio poetico evocatore del mistero, senza il quale nessun mondo e nessun mistero sarebbero possibili»(46). L’artista campano, invece, esprime il suo turbamento con la deformazione degli oggetti del reale: pur partendo dal dato oggettivo, Matarazzo lo sottopone ad un trattamento antinaturalistico, interferisce, attraverso interventi elettronici, nella sua fruizione, ed è questo trattamento a stimolare la ricezione sensoriale dello spettatore e ad avviare in esso un processo attivo di interrogazione e apprendimento. Il placido turbamento preso in prestito da Magritte viene caricato dei toni gravi, delle lacerazioni, della sofferenza delle pitture baconiane. La realtà ritratta da Bacon «è una realtà visibilmente minacciata, umiliante, sconfortante per l’inquietudine che la pervade tutta: inquietudine strettamente legata alla consapevolezza della propria fragilità e al contrasto lancinante tra il desiderio istintivo animalesco di vita, di energia, di potenza e lo scacco di una perenne, continuamente minacciata caduta»(47). È la stessa impotenza che emerge dai versi di Canio Loguercio e che traspare dai volti e dai gesti dei penitenti, ripresi nell’attraversamento di una realtà che l’uomo non sembra in grado di controllare. I personaggi di Matarazzo al pari di quelli del pittore irlandese sono figure che « sembrano nella possibilità di perdere la loro ossatura per farsi scivolamenti strani o sommovimenti di materia in fusione»(48). quasi si muovessero in un’atmosfera succosa, in un liquido denso, oppure rimangono immobili, allucinati nell’attesa di una liberazione. Trattamento pittorico delle immagini, loro manipolazione, echi della grande tradizione artistica: Miserere offre una rappresentazione sfalsata, collocata al di fuori delle abitudini che spengono lo sguardo, che trasmette esplicitamente la nostra epoca. Lo sforzo di lettura che l’opera esige porta lo spettatore ad un’intensa attività di partecipazione e alla formulazione, da parti sua, di vaghi perché, circa le problematicità del suo tempo e le difficoltà legate alla sua condizione di essere umano. IV.6. Un’esperienza in divenire Miserere non è solo un video, ma un progetto multimediale vasto e non ancora concluso, l’incipit di un’esperienza articolata e complessa. Dopo l’anteprima del film e il suo passaggio nel circuito dei festival, è partita, dal 2005, la “Carovana del Miserere”che consiste in una serie di concerti, tenuti da Canio Loguercio in tutta Italia, durante i quali intervengono personalità diverse della scena culturale contemporanea con un loro specifico contributo. L’esibizione del cantautore, interprete di appassionate canzoni in napoletano, viene così arricchita dalla “personale preghiera” di coloro che, tappa dopo tappa, si aggregano al “pellegrinaggio”. Come riportato nel sito, creato per sostenere l’iniziativa, «Miserere è l’occasione di un viaggio interiore individuale e condiviso, un’opera aperta e in divenire; un racconto-mosaico delle testimonianze raccolte nel corso del viaggio»(49). Il progetto poetico-musicale si è avvalso, oltre che della costante partecipazione di musicisti come Paolo Fresu e Rocco De Rosa, dei cantanti Maria Pia De Vito e Pasquale Trivigno (tra l’altro tutti già coinvolti nella realizzazione del video di Matarazzo), della collaborazione di nomi importanti della letteratura contemporanea, tra i quali ricordo Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri, Rosaria Lo Russo, Enzo Mansueto e Lello Voce. Anche l’arte, ovviamente, ha un proprio ruolo. In una delle ultime date lo spettacolo è stato introdotto da un’istallazione dello stesso Matarazzo, inoltre, il canto Miserere viene sempre accompagnato dalla proiezione, sul palco, dell’omonimo clip del videomaker. In questo modo il film viene portato tra la gente. La dimensione del concerto permette un contatto tra opera e pubblico più diretto e spontaneo, rispetto a quello che si crea nell’ambito di una mostra d’arte. Quest’ultima situazione concede una partecipazione delle persone a livello cerebrale, nelle serate in giro per l’Italia, invece, l’artista ha potuto registrare un coinvolgimento libero e spontaneo tra il soggetto che guarda e l’oggetto guardato. L’autore ha confessato di essersi sentito, all’inizio, infastidito nell’assistere alla visione del video durante l’esibizione di Loguercio: «provavo disagio nel sentire il suono in asincrono, lo schermo non ottimale..., ma a ben guardare anche senza la loro giusta collocazione rispetto alla musica le immagini non subiscono significativi stravolgimenti quindi ora sono molto meno apprensivo»(50). Non solo il messaggio implicito al video non viene mistificato, ma, inserito in questo rapporto emozionale con il pubblico, la forza comunicativa del lavoro di Matarazzo ne esce rinvigorita, acquisisce un valore aggiunto(51). Per lasciare una traccia tangibile di un’esperienza così ricca e partecipata è prevista, inoltre, per l’autunno del 2006, grazie all’appoggio editoriale de “il manifesto”, l’uscita di un cofanetto contenente il cd con le musiche di Loguercio, il dvd, più gli interventi cartacei di alcuni di coloro che hanno preso parte alle serate dal vivo. La “Carovana” non è stata la sola occasione in cui il video è servito da input per lo sviluppo di indipendenti e autonome sperimentazioni artistiche, questa volta condotte dallo stesso Matarazzo. Sembra quasi che l’autore non riesca a chiudere il suo rapporto con l’esperienza di Miserere(52). Dopo avere riportato su tela, tramite la tecnica aerografica, alcuni frame del video, nel maggio del 2006, nella galleria partenopea di Guido Cabib(53), ha allestito una mostra, dal titolo 10 secondi, organizzata attorno ad alcuni di questi acrilici, quelli che ritraggono Luigi, l’uomo con la bombetta. Per la durata dell’evento gli spazi espositivi, come riferisce Renata Caragliano dalle pagine di “La Repubblica”, sono diventati «un unico grande schermo da cui è possibile vedere, sentire e percepire più cose simultaneamente»(54). L’ambiente ha accolto una complessa istallazione: dieci grandi tele, caratterizzate da un esasperato iperrealismo e illuminate da una luce bassa e diretta, rimandano il volto dell’uomo, contemporaneamente al filmato proiettato in loop su di un telo trasparente dietro il quale si intravedono una carrozzina e un cappello. Tutte le immagini, sia quelle dipinte, che quelle videoproiettate, sono tratte dalla medesima sequenza (dieci secondi) di Miserere. Ad arricchire la serata inaugurale la performance dello stesso Luigi che si è posizionato dietro il tessuto leggerissimo dello schermo di proiezione a sfogliare un album di famiglia, mentre la voce di Giorgio Gaber recitava frasi del suo racconto Il babbo, il gatto e l’albero. È stata compiuta quella che l’artista definisce «una truffa semantica»(55) in cui realtà e finzione si confondono costituendo un equilibrio traballante che fa scattare qualcosa nella sensibilità dello spettatore, traghettandolo fuori dall’assuefazione dei linguaggi specialistici. Con questa istallazione Antonello Matarazzo da una parte ha voluto testimoniare come in campo artistico non ci siano limiti tra i vari linguaggi, «l’arte - dice - è una menzogna, una bugia necessaria a raggiungere il cuore delle cose. A questo scopo tutti i mezzi di comunicazione sono leciti»(56); dall’altra ha confermato l’autenticità del suo rapporto con il disagio, estraneo a pietismi e stucchevoli moralismi. Sono dieci secondi della vita di un diversamente abile, che, pur svelando una parte infinitesimale del mondo, attraverso l’effetto moltiplicatore, mostrano, citando Longino, «l’eco di un alto sentire». L’intersezione di più piani visivi e percettivi, l’amplificazione delle immagini, produco uno straniamento nel pubblico, che, allontanato dall’assuefazione dei linguaggi specifici, si attiva nei confronti di ciò che vede, sentendosi partecipe di quel mistero della vita che le immagini raccontano. Conclusioni Matti da slegare, A proposito di sentimenti, Amleto...frammenti e Miserere (Cantus) testimoniano l’uso nobile che del cinema può essere fatto: non solo strumento di intrattenimento, narcotico per coscienze, sedativo per libere idee, ma macchina per pensare. Far riflettere prima di tutto il regista il quale per raccontare ha bisogno di impostare un dialogo consapevole e onesto con il mondo, in un secondo momento chi le immagini le fruisce. Se lo sguardo del narratore è sincero lo spettatore si può trovare innanzi a una materia visiva vitale e comunicativa, generatrice di interrogativi che come uomo gli appartengono. Il cinema, il video (in questo caso tutte le opere, eccetto Matti da slegare, usano la tecnologia elettronica), se adoperati con intelligenza, si pongono come mezzi per far luce sui lati oscuri della vita, per illuminare le zone in ombra della nostra contemporaneità che per timore, spesso per indolenza, ci esentiamo dal percorrere. L’obiettivo focalizza l’attenzione del pubblico distratto sugli strappi, le incoerenze, i conflitti, della società, mette a fuoco gli aspetti più marginali del quotidiano, amplifica le voci che provengono dalle periferie umane, dai territori di confine. Partire dalla realtà, sovrapporre ai volti levigati dei divi, quelli agiti dal tempo e dall’asprezza del destino delle persone comuni, può essere un modo per arginare le formule che alimentano un pericoloso disinteresse alla realtà e agli uomini. Le immagini in movimento possono stimolare un ascolto più partecipato, introducendo lo spettatore a dei sentimenti, delle considerazioni, dei tempi, che lasciano tracce nella sua memoria. Lo possono fare percorrendo strade diverse, praticando una maggiore aderenza al dato reale, o cercando di esplicitare i significati profondi dell’esistenza, attraverso l’astrazione e la metafora. Il cinema, oggi più che mai, può essere il luogo di un impegno sociale, dove «ampliare gli orizzonti dello spazio umano offrendo un accesso alle opere, alle idee, e alla scoperta dell’altro; (dove) dare forma alle grandi problematiche del mondo moderno e far condividere, attraverso l’intelligenza di uno sguardo, l’esperienza di una dignità umana»(57) I quattro film fanno proprio questo: partendo dall’espressività dei volti dei protagonisti li raccontano come uomini. Il disagio dell’handicap è inserito in un contesto più ampio, nel quale le emozioni dei disabili si confondono con quelle di ognuno di noi e in questo modo, l’occhio di uno spettatore attento, può scorgere nelle immagini, al di là della particolarità dei contesti affrontati, anche tracce di sé. Sara Panattoni NOTE: 1. B. Di Marino, Il Morphing dell’anima, in Mazzino Montinari (a cura di), Catalogo della 42° Mostra Internazione del Nuovo Cinema di Pesaro, Fondazione Pesaro Nuovo Cinema, Roma, 2006 2. S. Lischi ed E. Marcheschi (a cura di), Invideo 2005. A rovescio, catalogo dell’omonima rassegna video, Revolver, Roma, 2005, p.83 3. S. Cargioli (a cura di), Le arti del video. Sguardi d’autore fra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie, ETS, Pisa, 2004, p. 14 4. Ibidem p. 15 5. F. Cinquemani (a cura di), Malintervista al contemporaneo Miserere, “A’Kiazzera”, giugno 2005 6. Cantante lucano, ma napoletano d’adozione, esordisce all’inizio degli anni Ottanta, insieme tra gli altri a Daniele Sepe, con la formazione Little Italy, nome di spicco della Vesuwave. Dopo l’esperienza con il gruppo fonda con Rocco Petruzzi e Rocco De Rosa, quest’ultimo collaboratore in molti suoi progetti, la casa discografica Little Italy Studio attraverso la quale promuove la sua carriera da solista. Dopo aver partecipato ad alcune raccolte e all’album Viaggi fuori dai paraggi, dell’ex compagno Sepe, nel 2004 esordisce con Indifferentemente che, inizialmente concepito come performance teatrale minimalista e suggestiva da eseguirsi all’interno di appartamenti privati, unisce alla tradizione della canzone napoletana elementi di elettronica e hip pop. Importante è stata anche l’esperienza a RadioUno sulle cui frequenze ha condotto, insieme a Gabriele Frasca, Tommaso Ottoneri e Patrizia Valduga, la trasmissione Audiobox. 7. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo per la tesi di laurea in Scienze della Comunicazione, febbraio 2006, online sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazioni di pagina 8. Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975); Rain man (Barry Levinson, 1988); Idioti (Lars Von Trier, 1998) 9. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo op. cit. 10. Freaks (Tod Browning, 1932); Le chiavi di casa (Gianni Amelio, 2004) 11. Nonostante la pellicola del 1932 abbia influenzato notevolmente il suo percorso artistico, nel quale si è spesso confrontato con la malformazione e la deformazione dei corpi (nel 1998 ha realizzato addirittura un ciclo pittorico dal titolo Freaks, attraverso le cui tele ha omaggiato i protagonisti dell’omonimo film), Matarazzo tuttavia ammette una certa fatica a credere che il progetto complessivo di autore e produttore non tenesse conto dell’impatto che tanta e tale mostruosità avrebbe inevitabilmente e, da un punto di vista pubblicitario, positivamente, avuto sul pubblico. 12. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo op. cit. 13. Le trasformazioni cui è stata soggetta l’idea di bellezza (e conseguentemente del suo contrario, il brutto), nel corso della storia dell’uomo, con tutte le valenze religiose, etiche, morali e sociali ad essa connesse, sono ripercorse in U. Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, Milano, 2004. Il volume A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati op. cit., si concentra invece sulla storia dell’handicap, prestando attenzione al valore e alla raffigurazione della diversità nelle varie epoche. 14. N. Wolf, Diego Velázquez, 1599-1660. Das gesicht Spaniens, Taschen, Koln, 1999, trad. It.: Diego Velázquez, 1599-1660: il volto della Spagna, Taschen, Colonia, 2000 e R. Giorgi (a cura di), Velázquez: luci ed ombre del secolo d’oro, Leonardo Arte, Milano, 1999 15. La Arbus aspirava ad annullare la mediazione del fotografo, l’aspetto più rilevante di una fotografia, a suo avviso, era non la composizione e la resa formale, ma la materia osservata, le persone ritratte: «È importante fare delle brutte fotografie. Sono le brutte che mostrano qualcosa di nuovo. Esse possono farvi conoscere qualcosa che non avevate mai visto, in maniera che ve la farà riconoscere quando la rivedrete ... Per me il soggetto di una fotografia è sempre più importante della fotografia .... Penso che la foto è importante per ciò che rappresenta ... e ciò che essa rappresenta è più importante di ciò che essa è» in Diane Arbus, Fotografie, (s. i. e.), Milano, 1972, pp. 2-14. Per un approfondimento sulla vita e l’opera della fotografa americana rimando anche a P. Bosworth, Diane Arbus. A biografy, Alfred Knoph, New York, 1984, trad. it.: Diane Arbus. Una biografia, Serra e Riva, Milano, 1987 e P. Bertelli, Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, Nda Press, Milano, 2006 16. La sua produzione artistica è stata sempre caratterizzata da un’attenzione, quasi ossessiva, per le deformazioni e le anomalie fisiche. Sulle tele prima, nei video poi, Matarazzo si è spesso soffermato su corpi sgraziati e goffi, su volti attoniti ed inebetiti, spesso marcandone i difetti con l’utilizzo di lenti anamorfiche, o effetti di morphing. Testimoni di questa sua attrazione per il brutto i cicli pittorici che si sono susseguiti dalla metà degli anni Novanta ad oggi: a partire da Immagini, per svilupparsi nel lavoro sulle fotografie ingiallite dal tempo in Innocenti e Meridionali, arrivando alle tele di Freaks, e Steak&Steel dove la malformazione è evidente ed esasperata, fino all’ultimo lavoro Sindrome, in cui sono ritratti alcuni bambini Down. 17. F. Cinquemani (a cura di), Malintervista al contemporaneo Miserere op. cit. 18. Dante Alighieri, Purgatorio, Canto V, vv. 22-24 19. In particolare, secondo quanto riportato nel Secondo Libro di Samuele il Misere fu composto da Davide per lavare il peccato di adulterio con Betsabea, moglie del generale Uria. Scopertala incinta Davide richiama il marito di lei a Gerusalemme cercando di indurlo a passare una notte con la moglie, non riuscendoci decide di rispedire Uria al fronte, dove si assicura la sua morte. Dopo il convenuto periodo di lutto il re sposa Betsabea, ma quando il figlio, frutto dell’adulterio muore poco dopo la nascita, Davide comprende pienamente il suo peccato e compone il Salmo 51, il Miserere. 20. Salmi 51,3 21. Salmi 51,7 22. G. Perretta, ...à rebours de l’écran, Steak&Steel, catalogo mostra, International Printing Editore, Avellino, 2005, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazioni di pagina. 23. Salmi 51,15 24. Canio Loguercio, Miserere 25. E. De Martino, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano, 1977, p.9 26. Ibidem, pp. 66-67 27. Luigi, Armando e Susy sono affiancati da tre attori professionisti, Camy Reza, Barbara Matetich e Massimo Borriello, chiamati a confrontarsi con l’handicap motorio. 28. Questo trattamento dello spazio è legato alla natura stessa dell’immagine elettronica che «più di qualsiasi altro medium, è riuscita a rappresentare la deflagrazione dello spazio contenitore di oggetti, ponendolo in essere come un processo in continua trasformazione e come estensione al di là dei limiti del visibile. Uno spazio senza confini, fluido e in movimento...In questo spazio il soggetto è diventato un errante e un veggente nel contempo, colui che si muove incessantemente reiterando traiettorie, gesti e percorsi perché privo di destinazione e colui che si blocca a guardare un mondo di ombre in cui non ci sono nessi e raccordi o, più spesso, che si volge a guardare all’interno di sé, un paesaggio mentale» V. Valentini, La figura umana nel paesaggio elettronico in V. Valentini (a cura di), Le storie del video, Bulzoni, Roma, 2003, pp. 81-82 29. È un termine ricorrente nelle formule dei riti magici meridionali. Il “maleviento”, o “male viente”, a seconda della zona geografica, viene rappresentato, nella tradizione, con le stesse caratteristiche della fascinazione: «come una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona...che “va per la via” in cerca delle sue vittime» E. De Martino, Sud e Magia op. cit., pp.13-23. 30. Nelle culture arcaiche la malformazione è percepita «come segno di appartenenza ad un mondo altro...incute timore, ma anche riverenza perché è segno di poteri particolari. Di un rapporto con il mondo degli inferi, con il mondo ultraterreno. Sciamani, veggenti, guaritori spesso presentano deformazioni fisiche ed in particolare alcuni deficit come la cecità e la claudicazione.» A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati op. cit., p.140. 31. Canio Loguercio, Miserere 32. L’immagine dell’infanzia come via d’uscita dall’ineluttabile immobilismo della vita è rafforzata dal colore stesso delle vesti della bambina: tutti i personaggi di Miserere, anche il dio cieco e claudicante, sono vestiti di nero, portano il lutto per un’esistenza di angoscia e di sofferenza, piena di ostacoli insormontabili, di pericoli a cui arrendersi, la piccola indossa invece una candida veste bianca, che esprime la purezza del suo sguardo dinnanzi al mondo, dove tutto è sorpresa e sapere. 33. L’artista avellinese ha realizzato il primo video, The Fable (2000), per accompagnare una sua personale. Tuttavia il lavoro, dopo essere stato visionato da Enrico Ghezzi, ha avuto una vita e una fortuna indipendente dalla produzione pittorica: selezionato per il Festival di Bellaria, ha segnato l’inizio della sperimentazione audiovisiva dell’autore. 34. Gli artisti che si riconoscono nel Medialismo «lavorano su una definizione di immagine che si basa su un trasferimento da un medium all’altro, un riversare che nel suo percorso condiziona le sorti morfologiche dell’immagine mimetizzata spingendola a una dimensione più mentale...Gli artisti odierni non concretizzano più un’idea o una visione astratta in un’immagine, ma riproducono ciò che ritrovano altrove, nei media, nelle immagini dei rotocalchi, nelle fotografie storiche, in immagini fotografiche del quotidiano, in immagini riprese dal video, nei codici del fumetto, nel tatuaggio, nel cinema ecc. Si tratta di una realtà riciclata dall’universo mediologico, in altri termini: una realtà stornata dalla riproduzione della riproduzione della realtà. La circolarità di tali scambi, se prima aveva favorito una dimensione di coagulo tra culture alte e basse, oggi sposta questa miscela verso i propositi operativi di una nuova arte applicata...» G. Perretta, Realismo mediale, “Flash Art” n. 219, dicembre 1999/gennaio 2000. Per approfondire le coordinate del movimento rinvio a G. Perretta, Medialismo, Politi, Milano, 1993 35. T. Casini, intervista ad Antonello Matarazzo per la 42 ° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, giugno 2006, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it 36. L’argomento è affrontato dettagliatamente in A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002 e in L. De Franceschi (a cura di), Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, Lindau, Torino, 2003. Tappa importante del dibattito sulle trasformazioni portate dal cinema nel mondo delle arti figurative è inoltre il saggio di W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit , in W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp, Frankfurt, 1955, trad. it.: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino, 1966 37. A. Costa, Il cinema e le arti visive op. cit., p.151. Interessanti esperienze che documentano gli intensi scambi tra il video e il sistema delle arti sono riportate in S. Cargioli (a cura di), Le arti del video. Sguardi d’autore fra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie, op. cit. 38. A. Costa, Il cinema e le arti visive op. cit., p. 153. 39. S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001, p. 34 40. A. Amaducci, Il video. L’immagine elettronica creativa, Lindau, Torino, 2001, p. 99 41. T. Casini, intervista ad Antonello Matarazzo per la 42° Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro op. cit. 42. Mia intervista ad Antonello Matarazzo, 12 settembre 2006, in appendice p.249 43. La scelta del copricapo, avvenuta, secondo quanto riferisce Matarazzo, senza fini precisi (aveva quel cappello e ha trovato che in testa a Luigi stesse benissimo) si è mostrata, comunque, molto azzeccata, se si considera la coincidenza tra lo scopo principale di Miserere, raccontare la condizione generale dell’uomo, e quello che afferma Magritte circa il fatto che «la bombetta non rappresenta una sorpresa. È un copricapo per nulla originale. L’uomo con la bombetta è un uomo ordinario» R. Magritte in M. Paquet, Réne Magritte, 1998-1967 : le pensée visible, Taschen, Cologne, 1993 trad. it.: Réne Magritte, 1998-1967: il pensiero visibile, Taschen, Colonia, 2001, p.84 44. L. Carlucci (a cura di), Francis Bacon, catalogo mostra, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 1962, p.18 45. L. Scutenaire in G. Ollinger, Z. e F. Leen (a cura di), Magritte, Charly Herscovici, Bruxelles, 1998, trad. it.: Magritte, Rizzoli, Milano, 1998, pag. 15. Per un approfondimento sull’opera di Réne Magritte rinvio anche a A. M. Hammacher (a cura di), Magritte, Harry N. Abrams, New York, 1973, trad.it.: Magritte, Garzanti, Milano, 1981 46. G. Ollinger, Z. e F. Leen (a cura di), Magritte op. cit., p.15 47. R. Magritte ibidem, p.15. 48. L. Carlucci, Francis Bacon op.cit, p. 10. 49. M. Leiris, Francis Bacon. Face et profil, Albin Michel, Paris, 1983 trad. it.: Francis Bacon, Rizzoli, Milano, 1983, p. 27 50. www.miserere.info 51. Mia intervista ad Antonello Matarazzo, 12 settembre 2006, in appendice p.245 52. Prima nell’ambito del cinema d’avanguardia, poi nella produzione elettronica e digitale, si è molto discusso sui modi e gli spazzi della visione. Interessanti riflessioni a questo proposito sono contenute in S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video op. cit. 53. D’altra parte il riutilizzo delle immagini in esperienze diverse è uno dei principi cardini del Medialismo. «Il lavoro artistico contemporaneo ha la caratteristica di perseguire una novità quando ri-situa, ri-colloca, ri-analizza. Non è dunque importante il solo segno che usiamo, ma come e perché lo usiamo. Non è indispensabile stabilire l’unicità del segno che usiamo, ma dare sfogo al senso in cui lo caliamo...Spesso l’opera si svolge passando da immagine ad immagine senza mai esaurirsi, spostando in se stessa il centro di gravità. Una fatalità che non può più significare soltanto accettazione di un destino del segno che incombe, ma amor fati, ossia desiderio dell’infinita apertura dell’accadere e del fare, del creare e del formare.» G. Perretta, Espropriarsi e darsi, in Antonello Matarazazzo, catalogo mostra, Edizioni d’Arte, Benevento, 1997, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazione di pagina 54. La Changing Role Home Gallery, in via Foria. 55. R. Caragliano, Ecco gli effetti speciali dell’artista videomaker, “La Repubblica”, 17 maggio 2006 56. R. Lucianetti, 10 secondi di Antonello Matarazzo: intervista all’artista per www.shortvillage.com, 18 maggio 2006 57. Il discorso del produttore francese Thierry Garrel introduce il Manifesto di Documè (circuito indipendente del documentario etico e sociale), riportato sul sito www.docume.org << |