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Bellaria Anteprima punto e a capo. [...] The Fable (U-matic, 9', 2000) di Antonello Matarazzo, "cinema liquido su tele e foto" (nella definizione dell'autore) (ri)afferma la densità del tempo e, in maniera non automatica pur nascendo da una catalogazione, libera e ri-imprigiona i suoi soggetti fra le lettere che scorrono e le cornici fotografico-pittoriche poste all'interno delle inquadrature. Fonte di riferimento sono le foto d'archivio del centro di cultura "Victor Hugo" di Avellino, che mostrano persone di cento anni fa in abiti di festa, e il più recente ciclo di lavori pittorici di Matarazzo, ispirato a quelle fotografie. Nomi, cognomi e soprannomi anonimi scorrono in apertura e chiusura come una lunga lapide tolta - ma per un tempo che scade, non per sempre - alla sua mortale immobilità. Nel mezzo, i volti che hanno qualcosa in più dell'antico e dell'essere legati solo ad un'altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche. [...] Giuseppe Gariazzo (CINEFORUM 397 - Anno 40 N° 7, Ago/Set 2000) I figli di nessuno enrico ghezzi Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra 'rete' di 'finestre' in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo, e di essere invece da lui conosciuto o meglio riconosciuto. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (suo e di Carlo Schirinzi, e con la collaborazione di Marco De Angelis), e quindi di diventarlo, ho avuto l'impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un'immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos'altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo. 'Faccio l'artista in provincia' mi disse quando lo chiamai al telefono dopo aver visionato un suo video (lo presi subito per un festival). Come se avere il coraggio di dirsi 'artisti' potesse non essere automaticamente 'provincia', magari fiorita ma con quel che di popoloso deserto che le appartiene, mentre la città, la civiltà urbana, è più un deserto ripopolato, popolato e disegnato a forza, campo di concentramento di fantasmi e movimenti e affetti che invece la provincia alberga contiene disperde con entropia più soffice e malinconica (torno ora da Cannes, dove stava, foglia anche adamitica sull'albero, una (inin)fluente retrospettiva 'fellini'; e mi accorgo di quanto Fellini sia proprio da studiare come perfetto allucinante percorso dell'illusione artistica, quasi un calco debordiano, rovescio preciso: la provincia coi suoi sogni familiarartistici di vita/opera nel suo tempo sempre sorpassato, e la fuga verso la città, cioè il cinema, dove l'arte è e sta, senza bisogno di artisti si direbbe; Fellini, per paradosso il più facilmente riconosciuto dei 'registi artisti autori', è quel che fu Parigi e sarà poi New York, un luogo esemplare del condensarsi urbano – vedi la 'confessione' ROMA – del desueto desiderio di 'voler essere artista', cioè di indorarsi e bruciarsi nell'arte automatica che è il cinema). Di The Fable mi colpì la malinconia appunto, un po' cattiva peraltro, ironica forse nei lunghissimi finti titoli di coda, peraltro infiniti e genealogici come nei kolossal tecnohollywoodiani, esatti nel sapere che in una semplice raccolta di fotografie culmina ogni volta e ad ogni sguardo tutta la storia del mondo. Sottolineo che si trattava di 'video', come già detto. E come per tutti i lavorgiochi di Matarazzo (ma ora dirò 'antonello'). Non tanto per il senso tecnico e quindi magico che la differenza film(pellicola)/video ha ancora, e soprattutto anzi ora, in questa luce di crepuscolo in cui tutte le immagini digitalmente si (con)fondono, in direzione dell'immagine invisibile che ci attende, priva di sostanza e di forma, senza di 'noi' perché 'noi' ci troveremo a essere sostanza e forma di quell'immagine, ci riconosceremo (quell')immagine. 'Video' quanto 'film' erano e sono quelli del suo non imparentato Raffaello Matarazzo (sempre nomi di pittore, 'guarda' (senza) caso). Glielo chiesi subito, e subito mi deluse: 'no, non sono parente'. E va bene. Giusto. Per irritanti che siano, i video (e poi i film, quando le imposture postwellesiane alla Barney si impongono a suon di miliardi e di 'copie originali' uniche per ricchissimi il cui pregio maggiore sta nell'ipotizzabile e augurabile facile riproduzione e contraffazione) "d'artista" risultano spesso i più ingenuamente genuini, nel circolare e peregrinare di 'corti' da un festival all'altro nel mondo; scontano subito le due ambizioni principali spesso intrecciate nei piccoli film di migliaia di neoregisti, appunto quella 'autistico-artistica' e quella di prevendersi con un biglietto da visita indifferente che dimostri la loro astuta complessa nitida (affid)abilità per più lunghi e filmici e dorati e spettacolari 'realizzi'. (Sappiamo del resto quanto sia più interessante artisticamente – e ahimè quanto stia diventando anche più 'intenso' – un momento medio di un film di Mario Bava degli esercizi affascinanti e spericolatamente (ma la 'rete' appunto c'è sempre ora, per tutti) postfilmici di un Douglas Gordon o di un Gordon Douglas o perfino di un Bill Viola. Inevitabilmente, a loro volta (loro e tanti altri artisti postvideofilmici), più intensi e (av)vincenti di quasi tutti gli altri artisti contemporanei, anche dei più accaniti e rigorosi e solitari (che allora non possono che pro(re)gredire di nuovo in senso criptofilmico trovando vertiginosamente il readymade duchampiano nell'opera stessa in quanto onda rifranta del mondo readymade); mi limito a constatare come i palindronomi/cognomi dei due 'douglas' citati siano precise citazioni – o volute barocche non volute – del nome del regista hollywoodiano di genere, secco esplosivo perfetto senzastile, che tra gli altri realizzò uno dei grandi titoli eponimi della fantascienza filmica, quel THEM che ancora o già 'ci' indica con ostinazione). Non conosco quindi l'opera d'artista di Antonello, quella in cui cose e immagini immagino pretendano d'esser ferme o quasi, almeno quanto cinema televisione video (pre)tendono invece di farsi credere in moto. Ho visto i suoi video, che ora vorrei chiamare film. Ho visto il film in cui mi ha proiettato e ritratto per quanto io abbia cercato di ritrarmene. Ho rinviato, fino all'ultimo e a dopo, anche il depositarsi di questo testo. So, e poi risento, che una genealogia senza nessun appiglio tuttavia ci unisce. E che le immagini dei suoi film, di quelli che amo di più e che definirei (per me) i suoi primultimi, tradiscono il rispetto per il giacimento di archivi intrecciati che c'è in ognuna di esse come in ogni volto, in ogni sguardo, in ogni punto ciecoveggente di esse. (Il grande cinema estremo di oggi su questa cecità e invisibilità del visibile lavora. Sokurov e Straub&Huillet, esempi forse opposti ma uniti nell'ingaggiare una sorta di 'sguardo di ferro', di confronto con lo sguardo fissato – Cezanne come nome unico qui solo per far breve, ma Piero..e Monet Turner El Greco alla rinfusa e settantasette altri – della pittura verso il proprio impossibile muoversi sulla lunghezza d'onda e vibrazione del subliminale fermo/in moto...). Trovo lì, ritrovo, la composta capacità di sapere l'inanità dell'artista, di sapersi 'figlio di nessuno' in una cava dove miliardi di mani senza nome, umiliate o ribelli, hanno scavato da sempre, bestie da lascaux o minatori prigionieri o cavatori anarchici, forse per ricavarsi una fossa. O il gusto amarognolo di rifiutarsi all'imperativo virale capitalistico dello stampar cartamoneta, che tanto non siamo, noi/them, eterni. Figli di nessuno, infine un po' fratelli, forse ci si riconosce senza conoscersi. Perché l'immagine non è figlio né madre, né padre né figlio, né copia né originale. La riconosciamo, senza che sappiamo cosa conosciamo delle 'figure', dei segni che crediamo di riconoscere e che non conosciamo. (Abbiamo (specie in arte, dove qualcuno pensa la parentela sia con un vero una cosa un reale, invece che un nulla), per i figli di nessuno, almeno il rispetto che abbiamo per i loro genitori e parenti tutti: per nessuno). enrico ghezzi (dal catalogo Antonello Matarazzo, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003) Video o dell'opera totale in Antonello Matarazzo [...] Ed è proprio il tema della memoria su cui lavora Antonello Matarazzo nella sua prima opera video, opera che l'autore avellinese preferisce definire "cinema liquido su tele e foto" (stabilendo da subito la sua idea di contaminazione e di spazi visivi esplosi tra loro amalgamati). The Fable (2000) è un video di 9 minuti dove scorrono volti immobili e perduti nel tempo. La matrice di costruzione resta l'impianto della pittura e della fotografia, ma l'opzione video comincia a definirsi da subito. Realizzando un'opera video che gioca su temi forti quali: il tempo, l'anonimato, la morte. Ma soprattutto quello che risulta più intenso e bruciante resta il senso dell'antico come mai sepolta tragicità. Il tutto lavorando soprattutto verso l'intensità dei volti "volti che hanno qualcosa in più dell'antico e dell'essere legati solo ad un'altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche". [...] leggi tutto Alfonso Amendola (dal catalogo Steack&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005) << |