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ASTROLìTE al Torino Film Festival

Il primo mediometraggio di Antonello Matarazzo, scritto e girato con il leccese Carlo Michele Schirinzi, approda al Torino Film Festival che si terrà dal 7 al 15 novembre prossimi.
Titolo: "Astrolite" anzi Astrolìte. Durata 45 minuti. Protagonista – se un protagonista c'è – Enrico Ghezzi, il critico cinematografico, padre di Blob e Schegge, appena censurato per il suo lungo servizio su Berlusconi. Scenario una Avellino al nero di seppia, vista dal basso verso il basso, come non l'avete mai guardata e vi sarà difficile dimenticarla.
Partiamo dall'inizio, anche in questo caso, se l'inizio c'è. L'astrolìte è un materiale esplosivo, con il quale traffica un alchimista o bombarolo – un ottimo Gabriele Perretta – che tenta di far deflagrare un televisore – gesto liberatorio per eccellenza – per una catarsi girata con occhi da entomologo. I personaggi sono come insetti, scrutati nella tana, prima che un rivolo di acqua li distrugga. La loro vita, marginale per statuto, è elogio all'insignificanza, vocazione alla nullità, conato alla non-esistenza. Goffe, autistiche figurine virtuali mai nate, staccate da uno schermo, grande ventre che li ha generati e a cui tendono per morire, finalmente.
Trama: accennata e consapevolmente pretestuosa, che aspira ad appartenere ad un genere, il giallo, e inevitabilmente de-genera nel rimando alla propria impossibilità di reggere.
Andamento circolare: il film si apre con i preliminari dell'esplosione e si chiude con la deflagrazione. Ma questo non è un film esplosivo: qui tutto implode e tende verso un centro che non è un nucleo narrativo ma un'icona, un'idea di cinema in carne ed ossa, quella incarnata autisticamente da Enrico Ghezzi, demiurgo di vite rarefatte e sospese tra esistenza e proiezione.
Opera metacinematografica e post-narrativa, Astrolìte va guardato – e non seguìto (sarebbe impossibile) – con abbandono estetico, mettendo da parte ogni convenzionalità. Lo sguardo trova nel film se stesso ma deformato, laddove non è più possibile la deformazione della realtà, piuttosto quella di una virtualità pervasiva, che inficia finanche il diritto di esistere di chi guarda e di chi è guardato.
Insomma questo è un film sull'ambizione illogica di fare un film, in un mondo in cui la rappresentazione si sostituisce al reale. Dunque, non c'è più nulla da rappresentare, se non quello che avanza negli interstizi del già visto: i rifiuti, i ritagli, i rottami, lo scarto delle altre vite, la segatura dell'umanità, usata per assorbire fallimenti. E la voce fuori campo di Ghezzi recita una sorta di refrain: "Il cinema è esalazione, una squama. Noi robot d'un tempo, siamo in preda alla mutazione...".
Matarazzo e Schirinzi utilizzano sia attori professionisti: Massimo Borriello e Nunzia Di Somma, che non-attori come Raffaele Pulzone: spettrale moribondo, Michele Di Prisco: uno straordinario contabile della morte, Gigio Borriello: credibilissimo suicida, con piccoli e memorabili camei come quello di Laura Mauriello – anche aiuto regista – e Rino Matteis.
Due gli scenari, entrambi irpini, ma che in realtà potrebbero essere qualsiasi posto del mondo, purché vi sia degrado e abbandono, obsolescenza e marginalità.
Il primo è il Mercatone: la macchina segue i sapienti tacchi a spillo di Nunzia Di Somma, che si destreggiano tra i rifiuti d'ogni genere e la pietra al collo di Borriello che tenta il suicidio in una pozza di acqua ristagnante.
Il secondo scenario è una casa nella campagna Atripaldese, innevata e astratta.
Purgati da ogni connotazione, si tratta in realtà di non luoghi per non esistenze, delle quali va annotata soltanto la data di inizio e quella di morte. Immancabile, quindi, il cimitero, terzo e unico luogo possibile, proprio perché niente è più. Solo in presenza della morte avvenuta gli autori danno voce ad una vena potente che altrove hanno sacrificato. E cioè il grottesco, che meglio d'ogni altro timbro si abbatte come una cesoia su ogni tentativo di senso. Con le croci di Pax e Max e Vallifuoco che si dispera sulla tomba della sua pasticciera assassinata, si ride. Anche.

Natascia Festa
(CORRIERE - 11/10/02)



ASTROLìTE ad un passo dalla menzione

Si è conclusa ieri la ventesima edizione del Torino Film Festival Cinema Giovani che ha visto in concorso nella sezione "Spazio Italia" il film Astrolìte di Antonello Matarazzo e Carlo Michele Schirinzi di cui ci siamo già occupati in queste pagine. Al Lingotto, martedì scorso, in una delle sale del Multiplex Pathé, la prima proiezione con gli autori e i maggiori critici italiani. Il film non ha vinto ma ha sfiorato la menzione d'onore dividendo fortemente la giuria. Buono anche il consenso che il film ha riscosso tra gli addetti ai lavori non in giuria. Le tre proiezioni della settimana scorsa hanno avuto un pubblico folto, interessato e, soprattutto, qualificato. Per il resto molta vetrina è stata data ai film con protagonisti volti noti tanto del cinema quanto della televisione. Nella stessa sezione "Spazio Italia" appunto, c'erano grandi produzioni con Franco nero e Valerio Mastrandrea. Di "nuovi linguaggi sperimentali" come recita il sottotitolo della sezione non si è visto molto. Astrolìte sicuramente si pone su questo coté, per palati meno facili. Tra le comparse avellinesi del film anche la nostra testata. "Corriere" è il quotidiano che racconta i delitti di un piccolo claustrofobico centro di provincia...

Astrolìte è un film respingente, che non vi piacerà, come certe volte non vi piace la vita che conducete o la faccia che avete. Uno va al cinema per sentirsi raccontare una storia, lasciarsi avviluppare in una trama, sognare mondi, scambiare identità, apparenze, ed ecco invece che un film vi restituisce nudi e crudi a quel che siete, e non lo sapete, svuota prosciuga e deride la vostra povera effigie, dandovi in pasto a quel sentimento di inapparenza, inappartenza, estraneità, che tanto v'eravate sforzati di ricacciare indietro, in chissà che recesso.
Siete pieni di angoli dove la luce della realtà non arriva, di luoghi oscuri, mai percorsi, di buio da stanare prima che lui stani voi: da lì, oscuramente, come un'esalazione, una squama, si fa strada una qualità indefinibile di ciò che sentite senza vedere e che vedete come privi di sguardo, degradati a simulacri, irretiti in una fissità scandalosa, sinistra e burlesca insieme, spettatori inermi mentre altri che non siete più voi, parla e si muove al vostro posto, in una lingua incomprensibile, secondo movenze e passi già fissati. Un altro sguardo vi possiede e vi tiene, siete ingabbiati senza una via di fuga che non sia ancora lo schermo che vi racchiude, ovvero il luogo entro cui questo spossessamento, questa mutazione, tutta interiore eppure così aliena, si consuma. E' un tempo debordante, denso di oblìo, fuori dal tempo e dall'assordante rumore di fondo – il monitor sempre acceso della quotidianità: sembrerebbe uno dei vostri odiosi tempi morti, e invece è il tempo morto del cinema, che in un bagno di bianco, di nero, di grigi e di accese mulinanti escandescenze, in poco più di quaranta minuti, parla del cinema e, attraverso le immagini, scrive di sé.
Metatestuale e allusivo, terribilmente autoriale, Astrolìte, mediometraggio di Antonello Matarazzo e Carlo Michele Schirinzi, in concorso al Torino Film Festival appena conclusosi, nella sezione "Spazio Italia", corre sul filo delI'equazione sguardo – percezione, I'occhio dietro la telecamera riprende il reale mutuando dalla realtà il suo coefficiente di assurdo, e lo restituisce, snaturato, impoverito, oramai reinventato, a chi guarda. L'oggetto della ripresa coincide con uno stato d'animo spaesante, è un chiasma visivo, un'equazione espIosiva (I'inglese shot vuol dire ripresa cinematografica e colpo, scoppio nel contempo), e per davvero, il potente esplosivo che dà nome al film e che attorno al suo nucleo mortifero rapprende una lunga beffarda teoria di incarnazioni, è un'attesa di cinema, I'incalzare di una minaccia seducente e corrosiva al reale – seducente perché visionaria, corrosiva perché svuota delle sue coordinate il percepire.
Seduzione e vessazione, del resto, compulsano l'opera degli artisti Matarazzo e Schirinzi, irpino l'uno, leccese l'altro, entrambi approdati al cinema come all'inevitabile crocevia di territori espressivi, figurativi e non, che avevano già attraversato, di suggestioni – letterarie, concettuali, massmediali – con le quali avevano sviluppato la consuetudine necessaria ad osare altro, a sperimentare ancora. Non è un caso che il personaggio che vediamo curvo in locandina, il 'bombarolo' col quale nella lunga sequenza iniziale il film si apre, sia il critico d'arte Gabriele Perretta e che al centro del tremendo e minimo caos che il film sviluppa ci sia il corpo il volto la voce di Enrico Ghezzi, sublime aguzzino e spietato censore di tutto il mediale che c'è.
Da due sud diversi, condividendo quello stesso stare ai margini di tutto ciò che riguardo all'arte accade sempre altrove, con la caparbietà, I'ostinazione, I'entusiasmo delle imprese un po' folli, superando la diffidenza di una provincia sonnacchiosa e poco disposta a dar credito a tutto ciò che evade dagli schemi rassicuranti della normalità, Matarazzo e Schirinzi sono andati in giro per Avellino a caccia di luoghi e di facce, calamitando intorno a sé la stessa energia sulla quale si reggeva la loro personale e magnifica ossessione. Due gli attori professionisti coinvolti nel lavoro, gli avellinesi Massimo Borriello e Nunzia di Somma, e poi una selva di facce, a dare volto e spessore a un pugno di moleste e derelitte creature, cospiratori del nulla per un giorno come Lello Pulzone, Gigio Borriello, Michele De Prisco, Fara Vitali, Emilio Grillo, Luigi Cosi – per citarne alcuni. Tra le righe di una scrittura filmica all'apparenza impervia, qualcosa di diverso dal linguaggio ma ad esso contiguo, si offre come un'ulteriore chiave di lettura del film, ed è appunto quella curiosità iconica dissacrante e vitale, il talento nel suo farsi, crearsi varchi, vie all'espressione a dispetto dell'evidenza, dell'indifferenza dei volti, del silenzio, della stasi, dello squallore dei luoghi. Già, i luoghi: una città desolante, che, se non rimossa del tutto, facciamo spesso volentieri a meno di ricordare, fa da sfondo, in gran parte, all'azione. Il Mercatone si è offerto senza trucchi di scena, senza cure o filtri d'autore coi suoi meandri e il suo deserto abbandono. Verrebbe da pensare: Avellino, cupezze e scintillìi. Le cupezze a Torino, alla ventesima edizione del più prestigioso dei festival per giovani autori, e gli scintillìi tra poco più di un mese, quando s'inaugurerà il nuovo teatro intitolato a Carlo Gesualdo. Tanto varrebbe intitolare il Mercatone alla bionda D'Avalos, sposa infedele del principe dei madrigali: è il posto ideale, per passare a dannarsi tutta l'eternità.

Laura Mauriello
(CORRIERE - 17/11/02)



I figli di nessuno

Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra 'rete' di 'finestre' in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo, e di essere invece da lui conosciuto o meglio riconosciuto. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (suo e di Carlo Schirinzi, e con la collaborazione di Marco De Angelis), e quindi di diventarlo, ho avuto l'impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un'immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos'altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo. [...] leggi tutto

enrico ghezzi
(dal catalogo Antonello Matarazzo, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003)



Video o dell'opera totale in Antonello Matarazzo

[...] Dal cinema il video acquista la volontà di rappresentare una costellazione simbolica che si rivolge all'animo umano, ma che è irreparabilmente sempre altra. Dalla televisione acquista il regime di dominanza del suono tant'è che, il rapporto tra radio e video caratterizzerà tanto accese ricerche di compositori di musica concreta ed elettronica (John Cage e Philip Glass sono due tra i nomi centrali) quanto susseguenti espansioni dell'uso del video (videoclip, videodanza, videoteatro) che sarà anche uno degli aspetti più investigati dall'arte del video. Una trionfo di ragioni e passioni, un riflettere sui livelli della percezione e una riuscita sintesi sulla contaminazione estrema dei linguaggi che il video Astrolìte (mediometraggio del 2002, co-firmato con Carlo Michele Schirinzi) lucidamente evidenzia. Uno scritto di enrico ghezzi (qui anche attore, tra gli altri c'è anche Gabriele Perretta) apre ed accompagna il film: "La mutazione è una sorta di immagine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l'origine del cambiamento dell'umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, che ci mostra in modo più evidente quello che sicuramente sta accadendo anche a noi". Film immerso nei colori del nero, tra citazioni di Beckett e movenze fumettistiche, spazi ossessivi e immagini ripetute, il film è un viaggio (provocatorio, volutamente sgradevole, visivamente eccedente) verso un'ideale poetica dei margini e della deflagrazione del visivo, con un pretesto narrativo che strizza l'occhio nuovamente al cinema giallo. Astrolìte è soprattutto una riflessione densa di sguardi e prospettive disarticolate verso gli universi del cinema, della televisione e delle immagini in movimento più in generale. Deformare lo sguardo sembra essere la volontà principe dei due registi. Ma anche riflettere sulla mitologia dell'esperienza televisiva. Più in generale, la questione della sperimentazione video trae la sua potenza formativa da una forte volontà critico-espressiva (ma anche introspettiva) che il video-maker fa del mondo in cui vive, un mondo filtrato attraverso schermi che trovano nella materia inconscia un resistente vuoto da cui trarre i materiali più disparati. Una potenza critica, decostruttiva, riflessiva, dunque che si rivolge contro i miti e i simulacri della degenerazione sociale. Staccandosi dalla realtà, il video si presenta come realtà altra, o meglio tende a produrre una realtà parallela a quella in cui viviamo. Ma non è una sur-realtà bensì una realtà che vive in un'altra dimensione. È una realtà in cui la cosa viene vaporizzata, ridotta a pura apparenza. È in questa new-dimension in cui tutto può accadere che l'essere si muove, si metamorfizza, nasce e contemporaneamente muore. [...] leggi tutto

Alfonso Amendola
(dal catalogo Steack&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005)



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